Controcultura

Viaggio nel dolore (senza tempo) del rapimento Moro

Quanto durano le otto ore che precedono il proprio rapimento?

Viaggio nel dolore (senza tempo) del rapimento Moro

Quanto durano tre minuti? Tre minuti sono eterni sotto una pioggia di piombo, tra gomme che stridono, urla, sussulti, fiotti di sangue, ignari passanti che corrono a perdifiato.

Quanto durano le otto ore che precedono il proprio rapimento? Possono volare come un lampo sotto l'ombra di una sensazione maligna, di un sogno che non si afferra. Possono sembrare lunghe, frantumarsi in tantissimi piccoli episodi a cui solo a posteriori si potrà dare un senso, il peso del fatale e della precognizione. È questa frantumazione e ricomposizione del tempo, che caratterizza il romanzo di Andrea Pomella, Il dio disarmato (Einaudi, pagg. 236, euro 19,50), incentrato su quel buco nero nella storia del nostro Paese che è stato il rapimento di Aldo Moro. E come i buchi neri creano un orizzonte degli eventi, che distorce il continuum dell'universo, così la violenza dei brigatisti in via Fani ha prodotto una singolarità che ha distorto e modificato moltissime vite.

Pomella (che potreste ricordare per L'uomo che trema o per I colpevoli) in questo libro, che non vuole essere ricostruzione storica ma ricostruzione letteraria, racconta lo stesso episodio a ripetizione, con realismo traumatico e seriale, fino a mostrarne le più dolorose sfaccettature. Il risultato è un caleidoscopio del male, uno specchio che proprio in quanto infranto ci restituisce un'immagine mai vista prima di un fatto che chi ha attraversato quegli anni, seppur da bambino come lo scrivente, non potrà mai dimenticare.

Sia chiaro, la ricostruzione fatta da Pomella è sempre molto precisa, anzi, in certi passaggi semplicemente interpola la narrazione con le voci di allora. Che si tratti di articoli di giornale, o della telecronaca concitata e carica d'angoscia di Paolo Frajese, questi frammenti di pura cronaca si incastrano e fanno da collante con quello che la Storia non può ridare: le emozioni dei protagonisti. Quelle Pomella le ricrea con arte sottile, quasi fosse un medium che ridà voce a fantasmi risucchiati dal tempo.

Il risultato è un romanzo che picchia dritto allo stomaco, senza effetti speciali, semplicemente mettendo il lettore di fronte a schegge di vite incrinate. O alla normalità dei luoghi che visitati, ad anni di distanza dai fatti, sembrano non esserne nemmeno più sfiorati. Perché il rischio è anche che la nostra normalità cancelli la memoria di ciò che è stato.

Ed il pregio del libro di Pomella è soprattutto questo: mostrare non la banalità del male ma la normalità del male negli anni Settanta. Del romanzo rimangono soprattutto i piccoli gesti quotidiani, soprattutto di Moro e della sua famiglia, che messi di fianco alla tragedia creano un cortocircuito insolubile. Quello che, in modo meno letterario e più da storico, ha raccontato anche Sergio Luzzatto in Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (Einaudi).

Il fatto che proprio adesso in questo cortocircuito si torni a scavare da più parti è il segno che, anche per chi da quelle vicende è stato solo lambito, magari vedendole colare da uno schermo televisivo, è rimasta una ferita di forma non decifrabile.

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