Dopo tre atti e altrettante ore tra saloni da ristorante e rispettive cucine, camere da letto, interni dalle geometrie Art Déco piegate al classicismo socialista, nel quarto atto irrompe un voronok, il furgone militare per il trasporto dei detenuti. Un salto brusco, "da allacciare le cinture", come aveva suggerito Sara Jakubiak, il soprano che ieri ha dato corpo, voce e anima a Katerina. E' stata la super-protagonista di Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, l'opera di Dmitri Shostakovich che ha inaugurato la stagione della Scala. Altro balzo sulla poltrona, nel minuto finale, quando Katerina si dà fuoco trascinando con sé Sonetka. Un finale inaspettato, dovrebbe infatti gettarsi nel fiume, per un'opera violenta, dove la brutalità del mondo non ha vie di fuga. Non c'è riscatto, tantomeno consolazione.
La Lady Macbeth russa racconta, fra l'altro, la passione malata di Katerina che per Sergej diventa pluriomicida. Anche Tosca uccide Scarpia, ma lo fa dentro una cornice ancora romantica. Qui gli omicidi sono atti brutali in risposta a brutalità maggiori.
Non c'è amore, giustizia, religione. Shostakovich, coautore del libretto, disegna a tinte grottesche poliziotti e preti, ridicolizzati fino alla farsa. Tutta la società che circonda Katerina è marcia, è un sistema deformato in cui tutti opprimono tutti. Perfino l'unico oggetto del desiderio, l'amante Sergej, è un carnefice. E nel finale emerge con forza la lettura del regista, un mondo in cui i carnefici diventano vittime e le vittime carnefici, senza innocenti. Il patriarcato è un tema, ma le donne non sono migliori. Il sipario cala sullo sciacallaggio delle deportate che sfilano gli stivali alle due morte, preceduto dallo stupro collettivo delle donne su Katerina. L'opera si apre con l'interrogatorio della polizia che indaga su un omicidio e si chiude con un omicidio-suicidio. Non c'è catarsi. La regia non indulge, non provoca, ma neppure nasconde. Racconta un'umanità ridotta a branco, cronaca di un presente ancora riconoscibile. Questa Lady Macbeth, accolta con diffidenza quando venne annunciata ("Cosa mai sarà? Del Distretto dicome si pronuncia?", si chiedeva il pubblico), ieri si è rivelata un grande successo. Riccardo Chailly ha firmato uno dei titoli a lui più congeniali mostrando quanto la Scala avrebbe potuto e dovuto esplorare di più questo repertorio durante il suo decennio da direttore musicale. Con il regista Vasily Barkhatov ha condotto lo spettatore dentro le fibre di un Novecento duro, riconoscibile, ancora vivo. Ha convinto il pubblico della Prima, che ha rimpinguato un botteghino mai così florido per un'inaugurazione, benché dal primo all'ultimo minuto l'opera inchiodi al muro capitale e mercanti-imprenditori. Ha convinto anche gli under 30 della Primina, il 4 dicembre.
Una Lady in Italia debuttò nel 1947 alla Biennale di Venezia, suscitando "molti dissensi, altrettanti applausi e disorientamento quasi generale", scrisse il critico Franco Abbiati. Il patriarca veneziano e Andreotti non approvarono l'operazione. Poi l'oblio fino alla ripresa del 1980 al Festival di Spoleto. Alla Scala è soltanto la terza volta, ma attendiamo il ritorno.