«Sono assolutamente convinto del fatto che la stabilità economica del mondo dipenda non in piccola parte dalla cooperazione tra Cina e Stati Uniti». Joe Biden sbarca a Pechino consapevole del momento delicatissimo e dellimportanza del rapporto con la potenza emergente che detiene buona parte (1165 miliardi di dollari di bond del Tesoro Usa) del suo debito pubblico. Per questo, a colloquio con il suo collega vicepresidente Xi Jinping, sceglie toni concilianti e amichevoli e afferma esplicitamente che «non esiste per gli Stati Uniti una relazione più importante che quella rafforzata con la Cina».
Ma si è anche sentito autorizzato - deludendo quanti continuano a vedere nellAmerica il principale difensore dei diritti umani nel mondo - a limitare a quattro parole di circostanza lesortazione al rispetto dei diritti umani in Cina, che sullargomento ostenta unassoluta sordità. E a sottolineare ancor più che in passato una sua nota posizione per così dire pragmatica sulle principali questioni geopolitiche dellarea cinese: Tibet e Taiwan. Sono parte integrante degli interessi nazionali cinesi, dichiara Biden secondo lagenzia ufficiale cinese Xinhua, e non si fa problemi a ribadire che Washington considera il Tibet (oggetto da sessantanni di una politica di violenta assimilazione culturale e sfruttamento economico) parte inalienabile dello Stato cinese e che non sostiene lindipendenza di Taiwan (che invece esiste di fatto dal 1949 seppure allinterno di un complicatissimo contesto diplomatico).
A ben vedere, Biden non ha detto cose nuove. Ha però presentato nei toni più graditi alla dirigenza di Pechino le posizioni americane, che sono piuttosto complesse, su due dossier internazionali delicati e sui quali la Cina ha proprie linee radicali: ossia che il Tibet non è altro che una provincia cinese dove operano separatisti aizzati dal «criminale» Dalai Lama, mentre Taiwan è una provincia ribelle alla cui indipendenza di fatto dovrà in un modo o nellaltro (preferibilmente con unassimilazione pacifica, ma anche con luso della forza qualora ciò diventasse possibile) esser posto termine nel futuro. Il vice di Obama avrebbe dunque detto in sostanza che Pechino ha diritto di fare ciò che vuole in Tibet perché è a casa sua, mentre per Taiwan le cose non sono così semplici: negli ultimi quarantanni gli Stati Uniti infatti non hanno mai sostenuto che lisola debba ottenere unindipendenza formale (tanto è vero che Washington riconosce il governo di Pechino e non quello di Taipei nellambito della politica detta di «una sola Cina»), ma al tempo stesso sono i suoi principali alleati non ufficiali e fornitori di armi, nonché il suo terzo partner di import ed export.
Certamente Biden non intendeva dire che la Cina potrà fare (se e quando ci riuscirà) un boccone di Taiwan con lassenso americano. E quando ieri ha detto che Washington «conferma i suoi impegni per il mantenimento della pace nello Stretto» che divide Taiwan dalla Cina, si riferiva anche alle armi americane che permettono a Taipei di evitare uninvasione cinese. Biden ha dunque solo voluto far capire ai suoi ospiti che oggi la Casa Bianca non vuol avere con Pechino più problemi del necessario.
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