Dopo i giovanili Viva Caporetto!, L’Italia barbara e L’Europa vivente, nel 1929 Curzio Malaparte - poco più che trentenne e direttore della Stampa - riprende la saggistica politica pubblicando Intelligenza di Lenin. Le azzardate teorizzazioni degli anni giovanili cedono il posto a analisi più concrete. I temi di cui comincia a occuparsi sono il potere e il mezzo migliore per conquistarlo: a questo primo libro seguiranno I custodi del disordine (1931, sul potere nell’Italia postrisorgimentale), Tecnica del colpo di Stato (1932, sulla conquista violenta del potere) e Lenin buonanima (1932, su Lenin e la rivoluzione d’ottobre).
Tecnica del colpo di Stato fu il suo primo successo mondiale, e tutt’oggi è il suo libro più letto e tradotto dopo La Pelle e Kaputt. Malaparte lo scrisse a Torino, mentre era ancora direttore della Stampa, negli ultimi mesi del ’30. Ma sapeva che non avrebbe potuto pubblicarlo in Italia senza andare incontro a un sequestro certo e probabilmente alla perdita della direzione. Quindi, quando venne licenziato dagli Agnelli, decise di pubblicarlo in Francia, da Grasset. Si trasferì a Parigi, nell’aprile del ’31, «per mettersi al riparo dalla possibile reazione di Mussolini», come scrisse nella prefazione aggiunta nel dopoguerra. In realtà andò perché gli piaceva la ville lumière, e si apprestava a diventare - dopo il periodo strapaesano - uno scrittore sempre più internazionale. Un redattore di Grasset ricordò: «Non negava d’essere stato fascista durante la marcia su Roma ma affermava, senza essere troppo creduto in Francia all’epoca, d’essersi definitivamente staccato dal movimento. Era, in ogni caso, d’una estrema libertà quando parlava del governo del suo paese; e anche questa disinvoltura lo faceva trovar sospetto e qualificare come agente segreto o doppiogiochista».
La pubblicazione della Tecnica del colpo di Stato, che in Francia ebbe ventisette edizioni e fu subito tradotto in sei lingue, aumentò ogni genere di voci su quell’italiano imprevedibile e geniale. Tanto più che l’accostamento della Tecnica al Principe di Machiavelli fu inevitabile. Malaparte spiega come si conquista e come si difende uno Stato nel ventesimo secolo: la vittoria non dipende da situazioni politiche, sociali, né tanto meno dalla «bontà» di una rivoluzione; dipende piuttosto da un fatto strettamente tecnico. Basta che un gruppo di «catilinari», di destra o di sinistra, decisi e abili, riesca a impossessarsi con la forza dei centri nevralgici dello Stato medesimo per riuscire a controllarlo, senza l’intervento delle masse o il favore di determinate circostanze. È tipico di Malaparte l’assoluto disinteresse ideologico, riscontrabile in tutta la sua vita e che lo portò, in base a situazioni contingenti, dal fascismo all’antifascismo, dal comunismo all’anticomunismo e viceversa.
Per dimostrare la sua tesi, molto meno ovvia di quanto appaia oggi, Malaparte porta a esempi principali la rivoluzione bolscevica e quella fascista, viste come risultanti non dei rispettivi ideali e seguaci ma dell’abilità «catilinaria» di Trotzkij e Mussolini. Di conseguenza il libro spiacque tanto a destra quanto a sinistra, oltre a allarmare i democratici. Malaparte non mostra maggiore simpatia per Mussolini o per Trotzkij, ma è evidente che apprezza entrambi per essere riusciti a realizzare il colpo di stato grazie alla propria abilità. Invece tutti gli altri, sia coloro che hanno fallito sia coloro che sono arrivati attraverso compromessi, vengono derisi: Primo de Rivera, Kapp, Pilsudski, Hitler, lo stesso Napoleone del 18 brumaio non seppero fare dei veri colpi di Stato perché cercarono di mantenere una parvenza di legalità e l’appoggio del parlamento.
In Italia e in Unione Sovietica la traduzione del libro venne proibita, ma Mussolini permise che venisse recensito; e comunque il volume circolò abbondantemente nell’edizione francese. Il duce non ne esce male, essendo presentato come «un uomo moderno, freddo e audace, violento e calcolatore», capace di ottenere quello che vuole. Mussolini, però, non poteva tollerare che la sua abilità rivoluzionaria fosse fatta risalire alla sua «esperienza marxista», né che la rivoluzione fascista, della quale si stava per celebrare il decimo anniversario, venisse presentata come un semplice colpo di Stato. Neanche Trotzkij fu contento del libro e del ruolo, attribuitogli da Malaparte, di miglior organizzatore di colpi di stato; nel ’32, in una conferenza tenuta a Copenaghen, Trotzkij definì le teorie dell’italiano «assurdità fra le più marchiane». Né ebbe mano più leggera nella successiva Storia della Rivoluzione russa.
Malaparte si vantò sempre dell’ostilità di Trotzkij. Ma nel dopoguerra si rese conto che il libro non era abbastanza antifascista; allora, volendogli attribuire la responsabilità dei suoi guai successivi con il regime, ne esaltò i meriti antinazisti, che in effetti aveva, come si può leggere nella finestra qui accanto. Si ricordi che il volume fu scritto nel 1930 e che venne pubblicato nel ’31, due anni prima dell’ascesa al potere di Hitler. Eppure Malaparte gli dedicò molto spazio, con mano pesantissima. Con uguale durezza e preveggenza scrisse del nazionalsocialismo, ma non è dimostrato quanto affermò poi in più occasioni, cioè che appena giunto al potere Hitler abbia chiesto la sua testa a Mussolini, ottenendola.
In definitiva la maestria di Malaparte, nel volume riproposto oggi da Adelphi, fu saper fare della letteratura scrivendo un saggio: senza che il saggio risentisse dello sforzo letterario o che lo stile risentisse dell’argomento; un risultato raggiunto poche volte nella cultura italiana.
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