"Voi vedete uno scheletro io la trama di un noir"

La regina del thriller forense ci racconta come ha rivoluzionato un genere: "Per anni ho studiato ossa. Poi ho pensato: questo lavoro è da romanzo". E rivela: "Nella vita identifico i caduti in guerra"

"Voi vedete uno scheletro io la trama di un noir"

Il cadavere di un annegato ritrovato fra le acque gelide del lago di Hemmingford, nel Québec diventa oggetto delle indagini della anatomopatologa Temperance Brennan nel romanzo Le ossa del ragno (Rizzoli) siglato dalla regina del forensic thriller Kathy Reichs. Un uomo che risulterà dedito a strane pratiche sessuali e che verrà identificato come un ex militare ufficialmente deceduto in Vietnam nel 1968. La Reichs (che questa sera sarà ospite alle ore 21 della Nona edizione del «Festival Letterature» presso la Basilica di Massenzio a Roma) spiega come abbia tratto ispirazione per questo suo ultimo libro dalla sua reale collaborazione con l’ente governativo che negli Stati Uniti si occupa del recupero e dell’identificazione dei soldati morti in missione. «Come ho spiegato nella postfazione al mio romanzo il CILHI (il laboratorio scientifico di identificazione dell’esercito statunitense) è confluito e si è fuso con il JPAC, che ha come missione quella di localizzare gli americani trattenuti come prigionieri di guerra e recuperare i caduti in tutti i conflitti, anche del passato. Mi è capitato in passato di lavorare come consulente di alcune di queste indagini e ne Le ossa del ragno ho raccontato parte di questa esperienza».

Quanto è importante riuscire a dare un’identità ai soldati morti in missione, ricostruire il loro destino?
«È importantissimo per dare pace ai familiari delle vittime, ma soprattutto per onorare una promessa scritta che le forze armate statunitensi fanno ai loro militari quando partono: ti mandiamo lontano, ma se cadrai faremo ogni sforzo per riportarti in patria, a casa».

Perché ha scelto un mestiere come il suo?
«In effetti non l’ho davvero scelto. Ho studiato per diventare bioarcheologa: mi dedicavo felicemente agli scheletri antichi e lavoravo in Università ma l’antropologia forense non era ancora formalizzata come specialità e io di fatto studiavo gli scheletri antichi. Cominciò a succedere che la polizia mi portasse da esaminare delle ossa di casi sospetti. Iniziai così a lavorare per il coroner, il medico legale, e decisi che mi interessava. Feci nuovi corsi e mi specializzai in antropologia forense, appunto».

Cosa l’ha spinta poi a raccontarsi attraverso i romanzi?
«Nel 1994, diventata professore ordinario, mi sono accorta che l’antropologia forense era ancora una scienza poco nota e, dopo aver scritto molti testi scientifici sull’argomento, ho deciso che poteva essere divertente provare con la fiction, e far conoscere a un più ampio numero di persone il mio lavoro».

Si sente di più detective, medico o archeologa quando svolge il suo lavoro?
«Tutte e tre le cose... anzi quattro, includendo il mio lavoro di antropologa. Ogni caso è un puzzle, un enigma da risolvere come detective. La parte medica entra in gioco nell’analisi dello scheletro e dei resti umani che mi dicono molto sul profilo biologico, le condizioni di salute, lo stile di vita di chi è morto. Quanto all’antropologia e all’archeologia, spesso oltre a recuperare e analizzare i resti, partecipo allo scavo vero e proprio, al lavoro sul terreno».

Come si è trovata a lavorare per la task force operativa che ha identificato i corpi delle vittime dell’11 settembre?
«Ho lavorato a Ground Zero per due settimane con l’équipe del DMORT (Disaster Mortuary Operational Response Team). In realtà, non ci occupavamo dell’identificazione dei corpi: i resti erano talmente piccoli che potevamo sono recuperarli per valutare se in effetti fossero resti umani e poi mandarli al medico legale per l’analisi del DNA».

È soddisfatta dei risultati di una serie televisiva come «Bones»?
«Come potrei non esserlo? Già è raro che da un’idea si passi a una puntata pilota: con Bones siamo arrivati alla sesta serie, vuol dire che funziona! La vedono in 75 Paesi. E poi io non sono uno di quegli autori che si lamentano della trasposizione televisiva o cinematografica: mi piace anche il set, regna una bella atmosfera anche fra chi ci lavora».

Quanto le assomiglia Temperance Brennan?
«Professionalmente siamo uguali, facciamo lo stesso lavoro, ma quando ho creato il suo personaggio non volevo dare l’immagine di una donna perfetta,

e le ho attribuito difetti e problemi che non sono i miei. Abbiamo lo stesso senso dell’umorismo, ma l’alcol, il fallimento del matrimonio e i problemi con la figlia sono solo problemi suoi e frutto della mia fantasia».

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