«The Getaway Man. L’uomo della fuga non è un racconto del mistero, non ha un enigma da risolvere. Non vanta buona educazione né è rivestito di eleganti panni letterari, quelli così melliflui e noiosi della letteratura mainstream». Lo scrittore texano Joe R. Lansdale presenta con queste parole al pubblico italiano uno dei romanzi neri più interessanti della produzione del suo amico fraterno Andrew Vachss, newyorkese, 68 anni, autore culto dell’hard boiled per una nicchia di lettori che da noi possono contare finora su pochi titoli tradotti, tra i quali Giù nel nulla (Frassinelli, 1999) e Shella. Il buio nel cuore (Frassinelli, 1997).
E ora arriva The Getaway Man. L’uomo della fuga (Fanucci, pagg. 182, euro 16), che mostra ancora una volta la travolgente forza narrativa di un autore che conosce molto bene i territori criminali che racconta visto che nella sua vita è stato avvocato, investigatore federale, assistente sociale, ma anche delegato Onu in Biafra e persino direttore di un carcere per minori.
Andrew Vachss, come è nato questo suo nuovo libro?
«Mi sono sempre piaciuti i romanzi della serie Gold Medal della fine degli anni Cinquanta e inizio Sessanta e volevo fare un omaggio all’aspetto, e insieme alla lunghezza, di quelli che vengono definiti i “tascabili originali”... Il mio libro apparentemente racconta cosa vuol dire essere un autista della mala ma in realtà parla di come un uomo innocente si “ritrova” a guidare in un mondo che per un’altra persona è favoloso, un’arte... una droga... Eddie, il protagonista del libro, cerca il suo posto nel mondo in modo disperato, ed è disposto a rischiare tutto in questa ricerca. Non è un mitico “lupo solitario” di quelli che si vedono al cinema: il fulcro di questo romanzo è il bisogno pressante del protagonista di trovare un legame con gli altri».
Cosa l’ha portata a occuparsi in prima linea dei problemi legati alle violenze sui minori?
«Non posso rispondere a questa domanda senza scriverci sopra un libro. Riassumerò meglio che posso: odio i violenti. In tutte le loro manifestazioni. Non faccio quello che faccio solo perché amo i bambini, ma perché non sopporto chi li rende vittime».
Cosa l’ha spinta a dedicarsi alla narrativa?
«Ho iniziato scrivendo un manuale sul rapporto fra la legge e i minori, ma anche se era stato accolto molto bene dai professionisti che si dedicano alla protezione dei bambini e ai casi giudiziari riguardanti gli adolescenti, non avevo potuto raggiungere direttamente le persone sulle cui vite hanno una profonda influenza le decisioni del governo su questi argomenti. Volevo parlare a un pubblico più vasto di una giuria di tribunale. La battaglia era la stessa, ma gli obiettivi erano diversi: scrivere narrativa nella quale sapevo che i lettori avrebbero potuto trovare la cruda verità è stata la strada che ho scelto».
Ci può parlare della sua esperienza come direttore di un carcere di sicurezza per minori disadattati?
«Ospitiamo i peggiori ragazzini dello Stato. E siamo riusciti a farlo senza un solo stupro, accoltellamento, o suicidio. So che possono non sembrare dei risultati grandiosi, e non mi sorprende. Solo chi lavora davvero all’interno del nostro sistema ne conosce il vero volto. E questo, di conseguenza, spiega perché mi sono dedicato al crime novel... volevo far uscire quella realtà allo scoperto».
Lei è stato inviato dell’Onu in Biafra...
«Anche qui potrei scrivere un libro, amico mio. Il mondo si è rifiutato di definirlo genocidio, anche se il conflitto era fra tribù, e sono morte almeno un milione di persone tra il 1967 e il 1970. Mi sono avvicinato alla zona di guerra quando la fine era così vicina che non c’era più nessun giornalista. Quando quell’aereo della Croce Rossa è stato abbattuto dai nigeriani, era solo una questione di tempo prima che arrivassero i missili, le pallottole e le bombe. Sono andato via un momento prima che arrivasse la fine. E quale “fine” potrebbe esistere, più della scomparsa del Biafra? Naturalmente se si guarda più da vicino al costante conflitto nella zona del Delta, ricca di petrolio, non si riesce ad avere la certezza che guerre del genere potranno mai avere termine. Pensiamo alle squadriglie di Tutsi che davano la caccia agli Hutu in Congo. O al ruolo del Lord’s Resistance Army... Pensiamo come a uno psicotico assassino di massa sia stato permesso di spadroneggiare per tanti anni. Chiunque si rifiuti di cogliere la connessione tra le risorse naturali come il petrolio e i conflitti militari supportati da nazioni “non coinvolte” ha deliberatamente deciso di non vedere la realtà».
È vero che uno dei suoi prossimi progetti letterari, Heart Transplant, toccherà il tema del bullismo?
«È vero. L’uscita di Heart Transplant è prevista per quest’autunno. Ho scelto questo argomento perché, se si analizza, è l’esempio più lampante del pregiudizio secondo il quale “la ragione è del più forte”. Sia che si tratti di un individuo umano che tratta un bambino come se fosse una sua proprietà, o di un Paese che decide di sterminare una tribù o un’etnia, il principio è lo stesso. L’unico vero modo di combattere tutto questo sarebbe di ricodificare il nostro software culturale».
Perché ha voluto che Burke, il protagonista della sua più lunga serie di romanzi, fosse un criminale piuttosto che un poliziotto o un avvocato?
«Volevo mostrare alla gente il volto
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