Voti negli oratori Dico in Parlamento

Non sappiamo che cosa avesse tanto da ridere l'altra sera il ministro Rosy Bindi - che sarebbe il ministro per la Famiglia - quando, con aria trionfante, ha annunciato al Paese che erano nati niente meno che i «Dico», i Diritti delle Convivenze. Ma una cosa è certa: i cattolici che siedono in questo governo, con la lodevole eccezione di Clemente Mastella, si sono giocati quel poco di coerenza di cui ancora disponevano. Perché in queste ore basta farsi un giretto per parrocchie e oratori, provare a metter piede in un circolo Acli o in un centro della Caritas, per accorgersi che l'imbarazzo di tanta brava gente si taglia con il coltello. Persone per lo più buone e molto ingenue abbassano lo sguardo, abbozzano una difesa, ma poi, esauste, si arrendono all'evidenza dei fatti: la gente che hanno votato in nome della fede comune ha ceduto proprio sui temi più sensibili. Piuttosto che spezzarsi, i teo-dem si sono piegati alla forza d'urto del nichilismo, hanno reso omaggio con il cappello in mano a quella «dittatura del relativismo» di cui parla Joseph Ratzinger. E tentano di negare a parole quello che hanno detto nei fatti. Il nome che hanno dato a questo pastrocchio sembra fatto proprio per descrivere la loro condotta: qui lo «Dico», qui lo nego.
È negli ambienti dell'associazionismo e dell'impegno cattolico che nella primavera del 2006 Romano Prodi aveva costruito il suo - per altro risicatissimo - successo elettorale. È nei conventi, nelle colonie marine delle suore, negli oratori, nei consigli pastorali che il centrosinistra ha incamerato quel pugno di consensi necessari a battere l'odiato Cavaliere. Con una promessa sottintesa: anche se ci alleiamo con comunisti, verdi e radicali, niente paura: i Pacs e l'eutanasia no pasaran. E invece. Eccoli qua, i tetragoni cattolici della Margherita e dell'Ulivo, a inventarsi giochetti da settimana enigmistica per tenere in piedi il più litigioso governo della storia repubblicana. Eccoli a inventarsi contorsionismi dialettici e a ostentare gioia e felicità, nel giorno in cui hanno venduto per meno di trenta denari ciò che - a detta di Benedetto XVI - non è negoziabile: la famiglia naturale. Perché - a dispetto del «qui lo Dico e qui lo nego» dei signori Bindi, Binetti, Bobba e compagnia - la strada sdrucciolevole che conduce al modello Zapatero è stata inaugurata. Perché, con buona pace della signora Bindi, nel mondo del diritto quello che conta è la sostanza di una norma. Che li chiamino Pacs, o diritti individuali delle persone, o Dico, o Filippo, poco importa: l'essenziale è che lo Stato italiano abbia deciso di riconoscere uno status giuridico alla condizione di convivenza. Con i quattordici sudatissimi articoli del decreto istitutivo dei Dico, il centro-sinistra ha tratto il dado, ha superato il Rubicone del diritto naturale, e ha dato il via a una nuova, inedita stagione nella nostra millenaria civiltà giuridica. Ha stabilito che il mero fatto della convivenza genera una serie di diritti. Ora è solo questione di tempo: ci penserà la Cassazione, o addirittura la Corte Costituzionale modello-Zagrebelsky ad arricchire i diritti delle coppie di fatto, adozioni per gli omosessuali compresi.
Tutto il resto è fumo. Fumo negli occhi degli elettori, gettato da sorridenti ministri di estrazione cattolica i quali vogliono farci credere che la situazione è sotto controllo, che il bene comune è salvo e che è stato evitato il peggio. Alla fine, è crollato quel penoso teorema - ostentato per mesi dai cattolici che siedono in quella maggioranza - secondo il quale ci si sarebbe limitati a garantire i diritti individuali dei singoli. Basta leggere la prima riga del decreto per togliersi ogni dubbio circa la reale portata di questa norma: «Due persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi che convivono stabilmente... sono titolari dei diritti, dei doveri e delle facoltà stabiliti dalla presente legge». Queste parole significano una sola cosa: il presupposto in base al quale Tizio e Caia - ma anche Tizio e Caio, oppure Caia e Tizia - sono titolari dei diritti contenuti in questa legge è la condizione di convivenza. Dunque, ciò che si tutela primariamente non è la persona, ma il «bene giuridico» della convivenza. Infatti, la legge si preoccupa di stabilire il modo con cui lo Stato «certifica» una condizione che è soltanto di fatto. Ed è qui che la tragedia rivela il suo lato farsesco: in un primo momento la legge avrebbe previsto - con una certa coerenza interna - che i due «protagonisti» della convivenza si recassero insieme in Comune per registrarsi. Ma, così facendo, si sarebbe realizzato un gesto che ricalcava in maniera impressionante il rito del matrimonio, con il fotografo, gli amici, i parenti, i confetti e tutto l'armamentario per celebrare la festa. Una vera e propria manna per l'Arcigay, che avrebbe potuto organizzare senza esitazione il primo matrimonio omosex doc, a denominazione di origine civile. Allora, la componente cattolica dell'alleanza ha pensato bene di correre ai ripari con una trovata degna di Azzeccagarbugli: la dichiarazione verrà resa non congiuntamente ma «contestualmente da entrambi i conviventi». Dunque, niente scambio del sì e degli anelli, ma ingresso uno alla volta nell'ufficio dell'anagrafe. Il disegno di legge non chiarisce se i festeggiamenti in corridoio siano vietati o consentiti.

Siamo al grottesco: ci si vuole far credere che, siccome i due non si presentano insieme davanti al personale dello Stato civile, siamo di fronte a qualche cosa di diverso dalla creazione di un vero e proprio «matrimonio di serie B». Un'offesa prima ancora che al nostro senso morale, alla nostra intelligenza.
Alessandro Gnocchi
Mario Palmaro

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