di Proprio come si attendevano gli allibratori, al termine di una campagna elettorale appassionata quale la Gran Bretagna non conosceva da molto tempo, gli scozzesi hanno finito per votare più con il cervello che con il cuore, più con il portafogli che con la passione. La paura di conseguenze economiche negative, della prospettiva di una graduale riduzione di una rendita petrolifera già in diminuzione, del minacciato trasferimento a Londra di istituzioni storiche come la Royal Bank of Scotland, di rimanere per un lungo periodo fuori dall'Europa e con una sterlina gestita in esclusiva dagli inglesi, hanno prevalso su un orgoglio nazionalista che pure ha solide radici storiche e culturali. La saggezza di una maggioranza silenziosa che non si è manifestata fino all'ultimo ha sconfitto i sogni dei più giovani, concentrati soprattutto a Glasgow, che sotto l'impulso di una campagna nazionalista abile quanto sfrenata si sono pronunciati in maggioranza per il sì: possiamo dire che Adamo Smith ha finito con il prevalere su Braveheart. Dopo tutto, si devono essere detti gli elettori prima di entrare in cabina, abbiamo già ottenuto quello che volevamo: la completa autonomia in materia fiscale e sociale. Per paura che prevalessero i sì, i leader dei tre principali partiti britannici, in un raro caso di unanimità, ci hanno promesso un livello di autogoverno che non avremmo mai ottenuto senza la minaccia di andarcene per la nostra strada. Salvo per la politica estera e la Difesa, su cui comunque siamo d'accordo con Londra, dopo il varo della «maxidevolution» saremo praticamente indipendenti senza correre rischi imprevedibili e senza sobbarcarci i gravi problemi inerenti a una secessione. Perché, dunque, mettere fine a un'unione durata 307 anni, cui abbiamo dato un contributo fondamentale, per inseguire un sogno che - una volta realizzato - poteva anche riservare spiacevoli sorprese?
Ma faremmo un torto agli scozzesi, noti nel mondo intero per il loro eccessivo attaccamento al denaro, se attribuissimo la loro decisione alle sole considerazioni materialistiche. A mio avviso, soprattutto a Edimburgo e nelle Highlands, ha giocato anche un radicato attaccamento per la monarchia. Il leader nazionalista Salmond aveva assicurato, fin dall'inizio, che anche in caso di vittoria degli indipendentisti Elisabetta II sarebbe rimasta la regina, esattamente come negli ex-dominion Australia, Canada e Nuova Zelanda. Tuttavia la sovrana, pur senza prendere le parti di nessuno, aveva fatto chiaramente intendere la sua preferenza per la soluzione unitaria. Sua madre, Mary Bowes-Lyon, era scozzese, il castello scozzese di Balmoral è da sempre la sua residenza estiva e lei non ha mai nascosto il profondo legame sentimentale che la unisce alla Scozia. Votare per la secessione le avrebbe inflitto una ferita che soprattutto le generazioni più adulte hanno voluto risparmiarle.
La Gran Bretagna rimarrà dunque la Gran Bretagna, nessuno metterà in discussione il suo seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, le basi dei suoi sottomarini nucleari resteranno nei fiordi scozzesi e Bruxelles non dovrà arrovellarsi sul problema di come riammettere un Paese secessionista che pure voleva restare nell'Unione. I movimenti separatisti di tutta Europa prenderanno atto che, anche se ottenessero un referendum sull'indipendenza, potrebbero uscirne sconfitti e forse ridimensioneranno le loro ambizioni. Nel complesso, il voto scozzese è un voto per la stabilità, che in un momento di turbolenza internazionale come questo non può non essere salutato con favore.
Ciò nondimeno, la svolta federalista che si prepara in Gran Bretagna con l'annunciata estensione delle autonomie scozzesi al Galles e all'Irlanda del Nord non rimarrà senza conseguenze e, se anche gli inglesi pretenderanno di gestire i loro affari senza interferenze da parte dei riottosi cugini del nord, si potrebbe perfino arrivare a un progressivo svuotamento dei poteri della gloriosa Camera dei Comuni a favore di quattro assemblee regionali.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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