nostro inviato a Damasco
Zidane ha un nome che sa di calcio, è un bambino di quattro anni. Gira a piedi nudi nel salotto di casa. grida, salta, sorride. Fuori il villaggio di Rheibeh, 50 chilometri a nord di Damasco. Sulla strada passano veloci motociclette cinesi stracariche di persone, sfreccia una coppia, un uomo e una donna con una bombola del gas in braccio. Sbandano senza cadere. Qui non ci sono nemmeno i marciapiedi. Intorno case da finire e polvere.
Zidane è partito l'anno scorso con la famiglia per venire in Italia. Era la sua ultima speranza. Appena nato gli avevano diagnosticato la talassemia. Ogni tre settimane una trasfusione di sangue. Troppe. L'unica possibilità, avevano detto i medici, era il trapianto all'estero. In Siria non li facevano. Gli otto mesi a Milano, all'ospedale San Raffaele li racconta il padre Mohammed tra le lacrime. «C'era tanta paura e fiducia insieme, c'è disperazione, come quando abbiamo visto un bambino iracheno morire».
Oltre a Zidane sono stati curati altri 21 bambini al San Raffaele. Tutti con lo stesso problema del sangue, tutti senza una possibilità nel loro paese. Tutti guariti perfettamente. Nel solo villaggio di Zidane ci sono dieci bambini con la stessa malattia mortale. E ora hanno un possibilità in più. Ieri, all'ospedale militare Tishreen l'inaugurazione del primo centro di trapianti di midollo osseo in Siria. La sola unità operativa in tutto il medio oriente. E il progetto è tutto italiano firmato Ime, istituto mediterraneo di ematologia, insieme al San Raffaele di Milano. Tre anni dopo, un lavoro di equipe tra i due paesi e un lieto fine: un centro operativo novo, l'autonomia dei medici siriani che hanno imparato dagli insegnamenti dei chirurghi italiani. Il primo paziente qui in Siria ha 47 anni, ha già superato la fase critica e sta bene. Tutti gli altri sono bambini. Quattro trapianti al mese, tutti minorenni. Una speranza enorme per l'intero medio oriente, un record in fatto di cifre.
«Ma non solo Siria, dice il presidente della fondazione Mario Marazziti, lo stesso progetto guarda tutto il medio oriente». È qui, nei paesi cosiddetti difficili, dove si hanno più difficoltà di dialogo che progetti così rendono forte un legame di collaborazione. «Non dimentico la disponibilità dei medici che in questi anni ci hanno seguito». Hala Hadish ematologa dell'équipe che opera a Damasco. Il velo le copre i capelli e parte del viso. Sotto al camice spunta una gonna lunghissima. Racconta la sua carriera, l'università, poi l'arruolamento nell'esercito per la specializzazione.
Oggi è generale, quattro stelle sul camice bianco. «Perché ho scelto la carriera militare? Beh, senza soldi è difficile specializzarsi. E io l'ho potuto fare in Inghilterra». Qui tutti i medici sono militari, nei corridoi ci sono guardie ad ogni angolo con il mitra in mano. Sono l'orgoglio di questo paese. Ci sono le cariche più alte, il vice capo di stato maggiore in prima fila insieme al direttore del servizio sanitario militare siriano. Accanto a loro uomini e donne in divisa con le stellette tirate a lucido. Parte l'inno, tutti in piedi. Dal nastro registrato la voce di Assad. Si complimenta per la riuscita del progetto. C'è silenzio, si abbassano le luci, le sue immagini scorrono sulla parete.
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