Politica

Il Viminale derubato Arrestato il prefetto che ha intascato il tesoro


Precisazione:
In relazione all'articolo sottostante si precisa che il Dottor Scalia non è stato indagato ma solo sentito come testimone nell'ambito del procedimento.


Massimo Malpica

RomaUn altro «direttore» di giornale in carcere. Anche se non è iscritto all'ordine come Sallusti, il prefetto Francesco La Motta, gentiluomo di sua santità, ex numero due dell'Aisi (ex Sisde), noto tagliatore di teste ai tempi (2007) dell'epurazione di massa di 007, è stato anche direttore responsabile di «Gnosis», rivista d'intelligence che ora non lo ospita più in gerenza. Il «direttore» non è finito dentro per diffamazione, bensì per quella che il gip chiama «indicibile beffa per i cittadini»: essersi fregato, trasferendoli in Svizzera su un conto della banca privata Hottinger, una decina di milioni di euro dal fondo per gli edifici del Culto (Fec) del Viminale, fondo che La Motta ha diretto fino a dicembre 2006. E sul quale, sempre secondo gli inquirenti, ha continuato a esercitare controllo, tanto da essere intercettato a marzo 2012 mentre, per sventare la chiusura del conto, assicura l'intervento presso il capo segreteria del ministro Cancellieri.
Corruzione e peculato i reati contestati dal pm romano Paolo Ielo dopo le indagini dei carabinieri del Ros. Ma i guai, per La Motta, rischiano di non finire qua: è indagato a Napoli per associazione per delinquere e violazione del segreto d'ufficio. Secondo un imprenditore (pentito) avrebbe spifferato informazioni riservate al clan Polverino tramite due broker già arrestati in quanto considerati organici alla famiglia camorristica. Uno dei due colletti bianchi considerati collusi, Eduardo Tartaglia, è il cugino del prefetto. Gli altri due arrestati sono Rocco Zullino, broker residente in Svizzera (con Tartaglia già in carcere), e Klaus Georg Beherend, bancario in pensione, considerato la «mente finanziaria» del gruppo. E i quattro nel prosciugare i soldi sottratti al fondo potrebbero non essere stati soli. Il dettaglio emerge analizzando le attività di «occultamento del reato mediante le falsificazioni dei prospetti» spediti al fondo del Viminale, falsi in grado di far sì che il CdA del Fec ancora a maggio 2011 attestasse «l'esistenza sul conto Hottinger di più di dieci milioni di euro, quando il conto era ormai da tempo prosciugato». Per il gip è «del tutto probabile che vi siano state collusioni con altri pubblici ufficiali organici al Fec, essendo del tutto inverosimile che nessuno si sia accorto di nulla per svariati anni». Resta l'«indicibile beffa per i cittadini che in un'epoca di necessaria austerità debbono apprendere dai giornali che soldi pubblici gestiti da un ministero, quello dell'Interno, che opera per la sicurezza pubblica, erano andati a confluire su un conto, poi svuotato, per effettuare trasferimenti a favore della Silgocom, società svizzera a cui erano pervenuti anche soldi provenienti dalla criminalità organizzata». Dall'ordinanza emerge anche il «sollievo» per lo scampato pericolo dell'ex vicedirettore del Fec, il prefetto Mario Giuseppe Scalia, che intercettato pochi giorni fa, appena convocato come testimone in procura, ringrazia «Dio» e la «Madonnina» perché La Motta gli sottrasse la competenza sui conti all'estero: «Mi disse... tu tratti la cultura, le mostre... il resto continuo a farlo io». E tra le «aderenze» di La Motta, citate dal gip per giustificare il pericolo di reiterazione del reato, salta fuori un'intercettazione con un uomo che «s'ipotizza possa identificarsi in Ferdinando Esposito», pm milanese. Il contatto potrebbe essere relativo non alle indagini ma a un'altra nomina che La Motta attendeva (il padre del magistrato è consigliere di Cassazione), ma per il gip «la dice lunga sulle aderenze del La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e sulle più che concrete possibilità per lo stesso di inquinare le indagini».

Potrebbe, però, trattarsi di un caso di omonimia: il cugino del pm si chiama Ferdinando Esposito e anche suo padre è un magistrato di Cassazione.

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