Gli interventi di Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Dino Risi hanno evocato soprattutto il cinema italiano di ieri, ma l’articolo di Maurizio Cabona, che li originava, arrivava fino ai giorni nostri. Intervengo su quelli, perché mi sono avvicinato al cinema a metà degli anni Ottanta, quando il cinema italiano era in uno dei momenti più difficili, travolto dall’esplosione senza controllo delle tv private, quando le sale chiudevano e Paolo Bertetto dedicava a quel cinema un saggio che fin dal titolo indicava la situazione: Il più brutto del mondo!
Se il cinema del regime fascista era stato megafono dell’epoca, era stato anche, a tutti gli effetti, industria cinematografica. Fra quel periodo e quello in cui ho cominciato a lavorare, quest’eredità - sfociata nel neorealismo, poi nella commedia all’italiana - era approdata alla commediaccia (Pierino, Edwige Fenech, Monnezza...) che nessuna rivalutazione trash potrà mai salvare. Non solo. Nel dopoguerra c’era stato un cinema italiano economicamente e tecnicamente non diverso da quello americano. Nel 1975 ecco la svolta epocale, che sintetizzo citando film ai poli estremi: a New York Taxi Driver di Scorsese, a Roma Il tassinaro di Sordi! La commedia all’italiana - persa la spinta caustica, innovativa - s’era ridotta a barzelletta. Nel 1977, ecco la seconda svolta, con Guerre stellari di Lucas e Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg: gli americani cambiavano il cinema imprimendo un’accelerazione tale che il resto del mondo non saprà più raggiungerli.
La mia generazione ha dovuto ricominciare da capo, in un paesaggio produttivo devastato, e si è inventato un cinema «fai da te», con film come Notte italiana di Mazzacurati (’87) e Domani accadrà di Luchetti (’88), Marrakech Express di Salvatores (’89). Se devo cercare un riferimento, un’eredità, devo dire che, scrivendo Marrakech Express, avevo come modello il film di Scola, Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (’68) e Fandango di Reynolds (’85). Poi abbiamo fatto Mediterraneo (’91). Il successo inaspettato e l’Oscar hanno ridato fiducia al “nuovo cinema italiano”.
Nella genealogia di Mediterraneo ci sono un romanzo, Sagapò di Biasion, che non riuscì a diventare film, e un film di successo, Tutti a casa di Comencini (’61). Stranamente, nessuno della mia generazione aveva raccontato i grandi episodi della storia italiana. Ci si era concentrati sull’oggi e dimenticato lo ieri. Solo Scola si confrontava con la storia con Una giornata particolare, raccontando la visita di Hitler a Roma e la frenesia dell’italietta imbevuta di retorica di Mussolini attraverso la delicata storia di un amore impossibile.
Fondamentale nel cinema mondiale, il cinema bellico era stato dimenticato in Italia. Così con El Alamein. La linea del fuoco (2002) ho fatto - anche da regista - un film di guerra cercando di restare lontano dalle ingenuità sentimentali e patriottiche dei film degli anni ’50. Ero in controtendenza: i film a sfondo africano e bellico, come Scemo di guerra di Risi - tratto da Il deserto della Libia di Tobino, che ora anche Monicelli vuol portare sullo schermo - e Tempo di uccidere di Montaldo, tratto dal romanzo di Flaiano, non avevano ottenuto buoni risultati. Tempi e modi di Giarabub di Alessandrini (’42), de Lo squadrone bianco (’36) e di Bengasi (’42) di Genina sono lontani.
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