Luciano Gulli
nostro inviato a Ramallah
Il giorno dopo, essendo un venerdì, è un giorno di festa per tutti. Ottimo pretesto, per i dirigenti di Al Fatah, per restarsene chiusi in casa, a digerire la sconfitta. Ma anche un'ottima ragione, per i vincitori di Hamas, per riprendere fiato e riordinare le idee, dopo l'ubriacatura di voti incassati alle legislative di mercoledì. Fatta eccezione per una vivace scazzottata, con corredo di raffiche di mitra tra opposte fazioni a Gaza, la transizione pare essersi avviata senza scosse.
Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, affiderà l'incarico di formare il nuovo governo al partito di maggioranza, come è nelle regole. Lo ha annunciato lui stesso, lasciando intendere che il mandato potrebbe essere offerto direttamente a Ismail Haniyeh, capolista dell'ala politica di Hamas, col quale Abu Mazen si è già messo in contatto. Attento al rispetto del galateo istituzionale, il presidente si ritaglierà (come prevede il sistema di regole dell'Anp) il compito di officiare le relazioni internazionali e i negoziati con Israele, lasciando al governo la gestione degli affari interni. Con Israele il dialogo proseguirà, ha detto Abu Mazen, avvertendo il futuro capo del governo palestinese che «gli accordi e gli impegni presi con la comunità internazionale», a partire dalla road map, andranno rispettati.
Ma la novità vera della giornata è rappresentata dal «grande ritorno», annunciato con strepito dalla stampa palestinese, del nemico numero uno di Israele: quel Khaled Mashaal, capo dell'ufficio politico di Hamas che da anni, dopo essere scampato a un attentato del Mossad, vive in esilio a Damasco. Anche Mashaal si è messo in contatto col presidente Abu Mazen, ringraziandolo per la perfetta organizzazione delle elezioni e proponendogli un governo unitario con Al Fatah. Un incontro fra i due, stando alle anticipazioni di Al Quds, giornale che si stampa a Gerusalemme est, potrebbe avvenire a Gaza fra una manciata di giorni. Sempre che Israele non ci metta lo zampino, abbandonandosi alla tentazione, mai sopita, di schiacciare «la testa del serpente», come nel 1997 lo definì l'ex premier Benjamin Netanyahu. Mashaal viveva ad Amman, a quei tempi. E fu lì che si «imbatté» in due immaginifici agenti del Mossad che gli versarono alcune gocce di un veleno sconosciuto in un orecchio. Per alcuni giorni, Mashaal rimase fra la vita e la morte. Se è ancora vivo e vegeto, lo deve allo scomparso re Hussein di Giordania, che da Israele pretese, e ottenne, l'antidoto per il veleno e la scarcerazione (per fare buon peso) dello sceicco Ahmed Yassin, il fondatore di Hamas.
Eppure, paradossalmente, oggi potrebbe essere Mashaal l'elemento di moderazione capace di fare da trait d'union tra la frangia più estremista del movimento e l'ala che propende per un pacifico atterraggio nelle istituzioni palestinesi.
Come Mashaal, anche Haniyeh, laureato a Gaza e assistente personale dello sceicco Yassin, è un sopravvissuto. Tre anni fa un F16 israeliano centrò una palazzina dove si teneva un vertice di Hamas, e Haniyeh si salvò per il rotto della cuffia. Gli israeliani ci riprovarono qualche mese dopo. Il piano, approvato da Sharon ma bocciato dagli americani (ai quali pareva evidentemente un filino eccessivo) prevedeva il rapimento del dottor Haniyeh da parte di un commando che lo avrebbe lasciato su una spiaggia deserta a centinaia di chilometri da Gaza.
I disordini, o peggio: la guerra per bande tra miliziani di opposte fazioni, per il momento sembra scongiurata. Anche se la tensione nei Territori si va innalzando.
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