Cultura e Spettacoli

Addio a Bunker lo scrittore a mano armata

L o scrittore americano Edward Bunker, a dispetto del nome e del «curriculum» da duro ex galeotto, non era indistruttibile. A 72 anni se ne è andato in un giorno d’estate, in California. Martedì 19 luglio, per la precisione, dopo un’operazione dovuta a un cancro. Si trovava in ospedale, certo, ma i suoi giorni si sono conclusi da uomo libero. Che per un gangster del suo calibro, con alle spalle anni di prigione e una temporanea apparizione nella top ten dei più ricercati d’America per furti d’auto, traffico di stupefacenti e rapine a mano armata in banca, non è poco. Avrebbe potuto andargli peggio - ed era lui stesso a dirlo: «Ero certo di morire prima di compiere trent’anni». Invece a 38 anni uscì dalla prigione e si rifece una vita.
È incredibile ma le agenzie in questi giorni non hanno battuto nulla, e alla voce «bunker», anche con la «b» minuscola, il motore di ricerca indica «zero risultati». Chissà se in epoca di censure, controlli e ossessioni paranoiche, anche il suo nome, per qualche insospettabile motivo, è stato messo al bando. Bandito. Tale fu, a onor del vero.
Eppure le sue apparizioni in pubblico, a Festival Letteratura di Mantova, le sceneggiature dei suoi film, le sue interpretazioni nel ruolo di Mr Blue in Le Iene di Quentin Tarantino, i suoi libri, Da cane mangia cane, uscito in Italia nel 1999, a Educazione di una canaglia, del 2002, a Little boy blue, del 2003, a Come una bestia feroce e Animal Factory, entrambi del 2004, tutti editi da Einaudi, ebbero un successo che lui stesso non si aspettava. Specie in Europa, ma anche in Giappone e persino in Australia. Ne era divertito, emozionato a volte. Fra coloro a cui Bunker diceva di dovere di più c’è il re del noir James Ellroy. Fra coloro che lo amavano lo stesso Quentin Tarantino e Woody Allen.
Sarebbe troppo facile cadere nella tentazione della retorica o nel cliché dello «scrittore maledetto» in versione splatter, con qualche banalità sulla poesia del gangster dall’infanzia difficile (figlio abbandonato di una ballerina di seconda fila di Busby Berkeley e di un direttore di scena alcolizzato) che ha trovato redenzione nella scrittura e in una tardiva paternità (a sessant’anni suonati Bunker è diventato padre). Sarebbe troppo facile, soprattutto dopo che certa cinematografia degli anni Novanta è riuscita a rovesciare, consapevolmente, lo splatter nella parodia di se stesso e a fare di quell’estetica una moda. Perché Bunker la violenza l’aveva subita e inferta davvero, non l’aveva solo descritta, fatta oggetto di letteratura, con tutta le furbesche finzioni del caso. Nessuna mitizzazione, per carità. Solo il tentativo di un ritratto senza aloni e di un commiato sobrio da un autore che ha saputo restituire uno dei volti della realtà. Con onestà, anche quando sembrava che la inventasse. La sua scrittura non aveva nulla di arbitrario. Era sempre una scrittura necessaria, perché - diceva - «non riesco a inventare niente, scrivo quello che è successo a me o a qualcuno che ho conosciuto dentro».
«Avrei potuto giocare meglio le mie carte, senza dubbio - si legge in Educazione di una canaglia - e ci sono cose di cui mi vergogno, ma quando mi guardo allo specchio, sono fiero di quello che sono. I tratti del mio carattere che mi hanno fatto combattere il mondo sono gli stessi che mi hanno permesso di farmi valere».
Non fosse che l’Fbi riuscì a mettergli le mani addosso, avrebbe potuto passare alla storia come un Arsenio Lupin, geniale nell’arte del furto perfetto e della fuga.

Ma il suo genio fu la scrittura.

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