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Addio al «camoscio» che voleva essere lupo

T radito dal cuore, emblema e simbolo di tutta una vita. Taccone lo esibiva come unico patrimonio personale: un cuore infaticabile da ciclista scalatore, un cuore immenso da uomo passionale. Gli ultimi battiti nel suo letto, quando sulla piana di Avezzano, cuore d'Abruzzo, ancora è l'alba. Poco tempo dopo il figlio Cristiano scende dal piano di sopra e bussa alla porta, come sempre. Stavolta non c'è riposta. Vito è già scattato per la fuga più lunga, senza che nessuno possa più riprenderlo. Pedala nei cieli portandosi dietro l'ultimo sogno, lui inguaribile sognatore: «Non voglio fare la fine di Enzo Tortora, processatemi».
Questo grido è scritto su un cartello, lo scorso 2 ottobre, mentre si incatena davanti al palazzo di giustizia. Chiede si faccia presto. Da giugno, da quando l'hanno schiaffato in galera con altri nove tipi della zona, Taccone si è trasformato da icona nazional-popolare di una stagione migliore in ambiguo personaggio della malavita locale. Associazione a delinquere dedita al commercio di abbigliamento contraffatto o ricettato. Anche se dopo l'arresto l'hanno rimesso quasi subito in libertà, è come se da mesi vivesse con le catene alle caviglie. Non si fa più vedere in giro, non parla più di corse. Non alza più la voce e lo sguardo. Chiede di far valere le sue ragioni, ma i tempi della giustizia non tengono conto di certe impellenze personali. Di tanti pesi e tante prove che il famoso cuore ha sopportato, questo peso e questa prova si rivelano fuori portata. A 67 anni, sconfitto e vinto, il grande cuore smette di correre. Taccone non ha più niente da chiedere. Per scelta del destino, l'unico processo che la memoria italiana gli abbinerà, dentro la cornice malinconica e indelebile del boom economico, resterà quello di Zavoli, alla fine della tappa, sui palchi caciaroni del Giro d'Italia.
Quello è il Vito Taccone che tutti ricorderanno. L'indefesso attaccabrighe degli anni Sessanta, quando il biscardismo televisivo è ancora di là da venire. Vito fa parte della compagnia di Giro messa in piedi con dosaggi scientifici da Sergio Zavoli, un po' teatro di strada e un po' bar Sport, dove gli smodati Zandegù si assortiscono meravigliosamente con la buona creanza dei chierici alla Gimondi. In questo brodo primordiale di vita vissuta, dai toni vagamente picareschi, Vito Taccone sguazza da re.
Ciclisticamente non è Merckx: ma nel suo piccolo è campione. Di generosità, di coraggio, di furbizia. Professionista dal '61 al '70, vince solo in Italia. Ma vince qualcosa di serio. Storiche le cinque tappe, quattro di fila, nel Giro del '63. Scalatore e scattista, attacca in montagna e semina il panico in volata. Al Tour del '64 lo accusano di provocare troppe cadute con i suoi sprint sfollagente. Una di queste simpatiche sfide si conclude letteralmente a cazzotti con lo spagnolo Manzaneque. I francesi lo censurano, lui reagisce mandando tutti a quel paese. In quello stesso Paese, non rimetterà più piede. Orgoglio allo stato brado.
L'incantesimo di Taccone è questa sua naturale capacità di proseguire l'agonismo della gara sul palco del dopogara. Se il «Processo alla tappa» diventa una leggenda, immancabilmente e inutilmente imitata nei decenni a seguire, tanti meriti sono di questo Pietro Micca della polemica, capace con il suo italiano acrobatico di scatenare interminabili beghe e memorabili gag.
La fantasia elementare dell'epoca lo consegna alla storia come Camoscio d'Abruzzo, per via delle agili scalate sulle cime del mito rosa. Ma di quel soprannome Vito non è poi così fiero. Non se lo sente addosso. Spiega sull'onda dell'allegoria: «Gazzella, lepre, camoscio sono immagini eleganti. Vanno bene per i Coppi. Io sono solo un lupo affamato, obbligato a mangiare l'asfalto, sperando così di mangiare davvero».
La corsa come lotta continua. La vita, pure. Quando scende di bicicletta, Vito trasporta la sua energia dinamitarda per le strade d'Abruzzo, movimentando tutti gli ambienti che frequenta. Da imprenditore avvia due aziende: una di liquori, l'«Amaro Vito Taccone», l'altra di abbigliamento sportivo, la «Vima». Da commentatore televisivo, non si ricorda un suo intervento a mezza voce. Da idolo sportivo della Regione, si batte e si sbatte per riportare il Giro in Abruzzo. E poi c'è l'ingresso in politica, prima con la maglia dei repubblicani, poi nelle liste civiche. Si candida a presidente della provincia dell'Aquila, inutilmente. A maggio di quest'anno prova a diventare sindaco di Avezzano, ancora inutilmente.
Purtroppo, la grande popolarità gli torna addosso soltanto per le manette. Con la giustizia ha da sempre lo stesso rapporto che aveva all'epoca con Zandegù: colluttazioni continue. In passato, si ricordano denunce per rissa e per escandescenze varie. Chi lo conosce non si stupisce neppure stavolta: l'accusa di riciclare merce taroccata viene inquadrata nel personaggio, eterno pasticcione, inguaribile arruffone. Spesso, inesorabile impiastro.
Anche nella deriva giudiziaria, però, non perde mai l'istinto della dignità. Non pretende l'assoluzione: chiede solo un processo. Ma subito, prima che la sua reputazione sia compromessa per sempre. «Non voglio fare la fine di Tortora», scrive disperato sul cartello, nella plateale mattinata dell'incatenazione. Protesta inutile, un grido perso nel vuoto. Dice adesso il figlio: «Non dormiva più la notte: ce l’hanno ucciso». Povero Vito.

Gli sopravviverà un altro Processo, e qualche vecchia biglia nascosta sotto la sabbia, a due passi dal mare.

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