Antonio Lodetti
Lo chiamavano il Nat King Cole di Cuba. Un vecchietto minuto dai modi semplici, gli occhi vivaci, i camicioni colorati e, sotto leterna coppola bianca della santeria calata sulla testa, 78 anni di vita cubana spesso dura e sofferta. Un vecchietto dalla voce matura e colloquiale, ricca di intriganti abbandoni melodici: si chiamava Ibrahim Ferrer - uno dei «supernonni» che hanno incantanto il mondo con Buena Vista Social Club - ed è morto ieri, a 78 anni, allospedale Cimeq dellAvana per una gastroenterite.
Con lui scompare un altro pezzo pregiato di Buena Vista, il disco e il film che ha sdoganato eroi del folklore cubano come Compay Segundo e Ruben Gonzales (entrambi da poco scomparsi) trasformandoli in rockstar internazionali. Nel 98, attraverso le immagini del film di Wenders, il mondo scopriva lanima di unAvana stracciona ma ricca di gioia di vivere, dominata dai ritmi del bolero e del son, da canzoni agrodolci come Dos gardenias, il classico di Isolina Carillo che Ferrer aveva trasformato in un suo cavallo di battaglia.
Ferrer non stava bene da tempo ma non aveva rinunciato alla musica. «La cosa migliore che so fare è cantare boleri, che è poi quello che mi viene più richiesto», diceva sempre. Così la settimana scorsa era in giro per lEuropa a suonare, anticipando ai fan alcuni brani di Mi sueno. A bolero songbook, il cd che avrebbe dovuto pubblicare lanno prossimo e che ora uscirà postumo. Ibrahim Ferrer non sapeva spiegare il suo successo; le risposte si trovavano da sole, nel suo canto ora triste ora gioioso, nella ricchezza melodica e nella ballabilità della musica cubana. Le risposte si trovavano su quel muro sbrecciato ripreso nel film in cui è scritto: «Noi crediamo nei sogni»; nella scena finale, dove i «supernonni» trionfavano sul palco della Carnegie Hall di New York e Ferrer gridava commosso al pubblico americano: «Siete la mia famiglia».
Insieme a Compay Segundo e Omara Portuondo, Ferrer è stato la punta di diamante della «Cuba-mania» ma il successo non lo ha cambiato. Concerti allinsegna del tutto esaurito (negli ultimi show italiani è stato accolto come un divo) una gragnuola di Grammy (tra laltro per gli album Afro Cuban all stars, Buena Vista presents Ibrahim Ferrer, Buenos hermanos che, con la collaborazione di Jon Hassell e dei Blind Boys of Alabama ha vinto come «miglior cd di musica tropicale tradizionale») eppure è rimasto un antipersonaggio per eccellenza. «Ciò che è cambiato nella mia vita - raccontava - è che prima la mia vicina mi salutava calorosamente, ora quando passo si nasconde perché è invidiosa. Non vorrei mi gettasse il malocchio». Già, perché Ferrer era molto superstizioso; con la santeria (i riti religiosi caraibici) non scherzava. Infatti in Buena Vista fa vedere con orgoglio laltarino dedicato a Lazaro, lidolo pagano cui non fa mai mancare un bicchiere di rum e una tazza di miele.
Per tutta la vita Ferrer è stato ossessionato dalla paura delle fatture, e per questo negli anni Ottanta si ritirò dalle scene, lui che era nato in una sala da ballo e aveva iniziato a esibirsi in pubblico a 13 anni fino ad arrivare negli anni Cinquanta alle due orchestre più popolari di Cuba: la Chepin Choven e la gloriosa Orquesta ritmo oriental di Benny Morè, detto «il mago del ritmo».
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