Addio mammella dello Stato

La nuova Fiat guidata da Sergio Marchionne appare molto diversa da quella a cui gli italiani sono stati abituati nell’era Agnelli, in cui essa, qualora sorgessero problemi, batteva cassa allo Stato. La Fiat, aggrappata alla mammella statale, era diventata un conglomerato tuttofare, interferiva nella politica, nei media e nelle banche. Poi, nonostante le poppate di aiuti pubblici, è andata in crisi, perché questo sistema, dannoso al contribuente, lo è ancor più all’impresa.
Quando pareva che fosse alla frutta, è arrivato Marchionne ed è cambiato indirizzo, ma con un traghetto tramite Luca Cordero di Montezemolo, esperto e abile nell’economia, ma anche nelle relazioni col potere. Ora Montezemolo torna alle sue imprese industriali, mentre alla Fiat si annuncia una rivoluzione basata sullo scorporo dell’auto e il suo rilancio.
Da un lato ci saranno le attività extra auto, organizzate in Fiat Industrial, che raggruppa Cnh (macchine agricole e per l’edilizia), Iveco, una quota di Powertrain (motori) e dall’altro Fiat Auto. La famiglia Agnelli, che conta oramai un centinaio di membri, con la sua accomandita, controllerà Fiat Industrie e, per ora, Fiat Auto. Questa nel 2014 dovrebbe produrre 6 milioni di auto, di cui 2,6 di Chrysler e 3,4 di Fiat, che nel 2007 ne produceva 2,5. L’incremento di auto di Fiat avrebbe luogo soprattutto in Italia: il piano di Marchionne prevede che la produzione in Italia passi a 1,6 milioni di unità dalle 800mila pre-crisi. Il raddoppio impegna cinque fabbriche Fiat: di Torino, di Pomigliano d’Arco, di Cassino, di Termoli e di Melfi.
L’origine di ciascuna di queste fabbriche fuori dall’area torinese si collega a un big della Dc e ha fruito della mammella della Repubblica. Per Cassino, si tratta di Andreotti, e della Cassa del Mezzogiorno; per Termoli in Molise, aperta nel 1960, si tratta di Remo Gaspari, allora ministro dei Trasporti, detto nella sua area Zio Remo; per Melfi, aperta nel 1989, di De Mita e della Agenzia per il Mezzogiorno. E per Pomigliano d'Arco si tratta di Prodi, presidente dell’Iri, che per la privatizzazione preferì Fiat a Ford.
Cinque stabilimenti per 800mila auto sono troppi, ha ragionato Marchionne, ma poiché sono validi e quelli del Sud non sono molto distanti fra loro (a differenza di quello siciliano di Termini Imerese, fondato con i soldi della Regione Sicilia nel 1970), conviene raddoppiarci la produzione, lasciando l’aumento estero a Chrysler. Così in realtà la Fiat Auto sarà, in termini di produzione e investimenti, metà Fiat e metà Chrysler e opererà su tutta la gamma dei prodotti, utilizzando tecnologie di avanguardia e lo stile con cui Fiat recupera la tradizione italiana di Torino (Lancia e Fiat), della Lombardia (Alfa e Maserati), dell’Emilia (Ferrari), abbandonata quando puntava molto di più sulla politica. Fiat ha buoni centri di ricerca, sino ad ora poco valorizzati. Adesso essi sono al centro del rilancio, basato su nuove tipologie di motori eco-compatibili ad alto rendimento con miscele.
Fra tenere in piedi lo stabilimento di Termini Imerese, fruendo degli incentivi e fare una scelta aziendalista, senza incentivi, Marchionne ha preferito la linea B. La linea A, sponsorizzata da sindacati e sinistra sarebbe costata due volte agli italiani, ai contribuenti per gli incentivi e agli azionisti e agli addetti del gruppo per le perdite su Termini, che avrà una riconversione su basi economiche. La nuova strategia di Marchionne va presa come modello dalle grandi e meno grandi imprese in Italia: debbono cercare l’internazionalizzazione e la produttività con la tecnologia e la qualità, senza aiuto pubblico, salvo per la ricerca. Ciò pone ai lavoratori un impegno a collaborare in una prospettiva di crescita, con salari agganciati alla produttività. Il piagnisteo sul fatto che Fiat diventa una multinazionale con minori radici in Italia viene smentito dal raddoppio della produzione italiana. Ma appare difficile che il controllo di Fiat Auto rimanga alla famiglia Agnelli dato che per questo piano occorre molto capitale fresco.


Le buone notizie per il contribuente, oltreché per l’economia delle aree coinvolte, smentiscono le critiche al governo Berlusconi che avrebbe lasciate tali aree allo sbando, in quanto non ha interferito nei piani di Fiat. Ci saranno, però, degli orfani a sinistra: perché i legami Fiat destinati ad allentarsi sempre più erano (e ancora sono) su quel versante.

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