Economia

Addio a Milton Friedman, liberista rivoluzionario

da Milano

Milton Friedman, decano e star degli economisti americani è morto ieri a San Francisco per arresto cardiaco. Aveva 94 anni e nel 1976 aveva vinto il premio Nobel. Nato a Brooklin nel 1912, in una modesta famiglia di emigrati provenienti dalla Rutenia (una regione alle pendici dei Carpazi, ora in gran parte divisa tra Slovacchia e Ucraina) è stato con i suoi 32 libri e gli oltre 400 articoli scientifici una delle figure chiave del pensiero (non solo economico) del ventesimo secolo.
Friedman è considerato il teorico della rivoluzione liberale che dagli anni Settanta del Novecento ha contribuito a cambiare la fisionomia della politica nel mondo occidentale. A lui hanno dichiarato di essersi ispirati Margaret Thatcher in Gran Bretagna, Ronald Reagan e i due Bush, padre e figlio, negli Stati Uniti. Non solo: da Paul Volcker ad Alan Greenspan fino a Ben Bernanke, tutti gli ultimi presidenti della Federal Reserve Usa hanno riconosciuto che il lavoro dei banchieri centrali è oggi profondamente debitore delle sue intuizioni. «Il quadro teorico disegnato da Friedman ha avuto così tanta influenza da coincidere in pratica con teoria e pratica delle politiche monetarie moderne», ha dichiarato di recente l’attuale numero uno della Fed Bernanke.
Un economista e un simbolo, dunque. Talvolta controverso. Come dimostrarono le accoglienze ricevute al momento della consegna del Nobel a Stoccolma. L’arrivo di Friedman fu accompagnato da una serie di manifestazioni di protesta contro le consulenze prestate al governo del generale Augusto Pinochet, che aveva voluto sentire il parere dell’economista Usa e dei suoi discepoli (i famosi «Chicago Boys») per rimettere in sesto la traballante economia cilena. Controverso anche per uno dei suoi caposaldi di filosofia politica: l’opposizione a ogni regime proibizionista in tema di droga nel nome della libertà, anche estrema, dell’individuo.
Ma Friedman è soprattutto l’ispiratore e principale teorico del monetarismo, secondo cui le variazioni della quantità di moneta non influenzano le grandezze reali dell’economia (dalla produzione al reddito) ma solo quelle nominali e in particolare il livello dei prezzi. Un principio che ha due corollari: l’inesistenza di una correlazione inversa tra inflazione e disoccupazione (la cosiddetta curva di Phillips) e la possibilità di arginare rialzi dei prezzi attraverso la quantità di moneta circolante nel sistema economico.

Uno strumento che oggi tutte le banche centrali (a cominciare da Bce e Federal Reserve) hanno ben presente.

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