Oscar Eleni
Capodanno tra il cielo e la terra. Così comincia l’armonia dove ci porta il ricordo di Giancarlo Primo che ha voluto andarsene nella notte, per non disturbare nessuno, perché quello era il suo stile, prima come giocatore di pallacanestro della scuola romana inventata dal futurista Ferrero, poi come allenatore, maestro per una generazione, sole del mattino nel settore femminile che da lui riebbe dignità, poi per la nazionale maschile in un decennio di scoperte, battaglie non sempre vinte e non sempre giuste, infine come guida per squadre di club dove respirava meno liberamente, ma dove trovò l’ultimo trofeo, la coppa dei campioni vinta a Grenoble nel 1983 guidando Cantù contro la Milano di Dan Peterson.
La fretta dei coccodrilli notturni vorrebbe farci credere che consideriamo importante per la storia del nostro basket e del nostro sport questo gentiluomo perché nel 1970, ai mondiali di Lubiana, la sua Italia batté per la prima volta una selezione statunitense messa insieme con giocatori che stazionavano in Europa, vittoria ottenuta con un gancio di Barabba Bariviera; perché nel 1977, agli europei di Liegi, superò per la prima volta la vera Unione Sovietica che non lasciava briciole al vecchio continente. Sintesi ingiusta dettata dalla poca conoscenza, perché l’uomo che ci ha lasciato martedì notte a Civitacastellana, dove si era ritirato combattendo il suo male, è stato davvero il padre spirituale e non soltanto tecnico di molte generazioni di giocatori e allenatori.
L’ultima volta che ci siamo visti, dopo aver litigato spesso, fu negli spogliatoi di Grenoble. Lui aveva vinto la coppa dei campioni contro Milano, un capolavoro psicologico guidando la Cantù del suo pupillo Marzorati e di Bariviera, che non era certo favorita, contro lo squadrone di Peterson dove c’erano Mike D’Antoni e Meneghin, un altro dei figli prediletti, il perno delle sue nazionali dal 1969 quando prese il posto del professor Nello Paratore ai campionati europei di Napoli.
Fu un abbraccio, una cosa strana, un’attrazione fatale dimenticando le tensioni passate, sapendo bene che quello poteva essere anche il capolinea di una onorata carriera vissuta al servizio della scuola italiana, reinventando i concetti della difesa, guidando per oltre 500 partite le rappresentative nazionali, costruendo, a poco a poco, un movimento che, con la presidenza del suo fraterno amico Claudio Coccia, entrò nell’era moderna di questo sport, lasciando una traccia indimenticabile. Abbracciandolo avremmo voluto dirgli tante cose, ma era la sua festa contro tutto e tutti.
Volergli bene è stato facile fin dai giorni in cui il professor Guerrieri raccontava aneddoti su quel gruppo romano, Primo, Cerioni, Costanzo, parlandoci di Elliot Van Zandt, il padre dei fondamentali per una scuola ancora alle elementari, che nei raduni con gli azzurri sorprendeva sempre quei pariolini nascosti dietro ad occhiali scuri: «Ehi, Primo, hai dormito così poco stanotte?».
Lui negò sempre, perché nella sua missione come capo allenatore aveva proprio voluto togliere quell’aura goliardica che aveva spinto le nostre nazionali, dalle Olimpiadi di Londra del 1948 dove fu giocatore, verso cieli più chiari. Cominciò rivoluzionando la squadra azzurra, via i veterani a parte Flaborea, dentro i giovani, da Marzorati a Meneghin, da Zanatta a Bisson, andando contro l’opinione pubblica. Era la sua missione e l’ha combattuta fino agli europei sfortunati di Torino del 1979 quando chiuse con la nazionale avendo vinto meno di quanto meritava, due bronzi europei, un quarto posto olimpico a Monaco e un quarto ai mondiali di Manila per un tiro all’ultimo secondo del brasiliano De Souza.
Ieri il basket lo ha salutato con un minuto di silenzio, un minuto che ci ha fatto camminare vicino ad un gigante, orgogliosi di averlo conosciuto, scoprendo che ci si può voler bene anche non pensandola alla stessa maniera.
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