Il dolore, secco, per la scomparsa di uno dei più grandi pensatori del secolo, è mitigato dalla consapevolezza che le sue idee, rivoluzionarie, saranno attuali ancora per un bel po'. Milton Friedman viene descritto come un semplice, anche se grande, economista. Si tratta di un errore, un clamoroso errore. Friedman è un filosofo morale: ha preso per mano la Scozia di Adamo Smith, i vagiti del primo capitalismo di fine 700, e li ha portati a Chicago nel XX secolo.
Quando gli intellettuali pensavano alla «società», egli ragionava sugli «individui», quando i sociologi raccontavano i «condizionamenti dell'ambiente» egli scopriva «l'interesse», quando la politica dettava «i codici e le regole» egli chiedeva «la semplicità».
Il suo ragionamento partiva sempre dall'individuo e dagli spazi della sua libertà. Friedman era un conservatore quando era il caso di preservare diritti naturali che ci spettano da secoli. Era reazionario quando si trattava di riscoprire spazi di libertà che ci vengono negati. Era progressista quando era necessario ampliare, con la modernità dei tempi, le attenzioni nei confronti dell'individuo. Friedman ci ha insegnato cosa volesse dire essere Liberali, in un periodo in cui era davvero difficile dirsi tali. Per Friedman, e in questo si trova financo una contaminazione marxiana di materialismo storico, non vi è libertà tout court se ad essa non viene associato un contenuto economico. È liberale distribuire ai propri concittadini un passaporto per muoversi a piacere, ma se nel frattempo si impedisce loro di esportare valuta, il contenuto della libertà politica si svuota. Non esiste una libertà predominante, esiste un concetto ampio che abbraccia anche le libertà economiche. Ecco perché Friedman non è solo un grande, grandissimo economista. È soprattutto un filosofo morale.
Ma Friedman innanzitutto se ne «fotteva». Sì abbiamo scritto bene e lo ripetiamo: «se ne fotteva». Se ne è «fottuto» dell'establishment accademico che gli ha riconosciuto il nobel con un ritardo di trenta anni. Se ne fotteva delle idee dominanti, quelle keynesiane, che aprivano la carriera. Se ne è «fottuto» di regalare uno dei trattati più belli di libertà civile ed economica alle pagine dell'irrituale Playboy a metà anni 70. Nella sua vita hanno contato due cose, principalmente, la moglie Rose, brillante economista con cui ha condiviso tutto, e i principi. Ai tanti giovani allievi che gli chiedevano consigli su come fare una volta chiamati al governo egli non si stancava mai di consigliare: «Fottitene di tutto, ma sui principi non si fanno compromessi».
E così questo signore nato a Brooklyn da una famiglia di poveri emigranti ha regalato al mondo la più bella teoria delle libertà di cui si disponga: la sua «ricchezza delle nazioni» si chiama Capitalismo e libertà. Tutto da leggere. Così come Liberi di scegliere, una raccolta di posizioni liberali scritto con Rose. Entrambi con una scrittura per tutti, con il pregio in un mondo di iniziati di scrivere per tutti.
Friedman non è stato mai un mito. Le sue idee sono sempre state là, accessibili a tutti, a chiunque avesse voluto ragionare con la propria testa. È stato considerato il padre del monetarismo, della scuola di Chicago. Ci ha spiegato che la moneta conta. Eccome. Sottovalutare la crescita dell'offerta monetaria equivale a sottovalutare l'inflazione: uno dei cancri dell'economia. Ma anche qui la risposta che arriva non è quella del semplice economista. Attenzione, studiamo una regola, che ci vincoli, che sappia come frenare i nostri appetiti, scrive Friedman. Il torchio delle banche centrali, così come la spesa pubblica, sono due pericolose leve che l'irresponsabilità di chi ci governa può manovrare con troppa facilità. «Padre nostro non ci indurre in tentazione...». Quella vecchia e sacra preghiera cattolica che Friedman conosceva bene. Non l'homo homini lupus che sbrana il vicino, ma il debole che accondiscende alla strada più facile. Friedman economico è stato per il medesimo filo di ragionamento l'uomo della flat tax (una aliquota bassa e uguale per tutti, prima l'aveva collocata al 23% e poi ridotta al 16%). Altro che progressività dell'imposta e la sua funzione redistributiva. Per primo ha messo in discussione la funzione del consumo di keynesiana memoria, per cui la propensione alla spesa decresceva con il reddito. Sull'altare di questa, empiricamente inesatta funzione, Friedman ci ha spiegato quanti errori di politica economica sono stati commessi.
Insieme a Smith e i classici (e una pattuglia di austriaci di difficile lettura), Friedman credeva e ci raccontava lo Stato minimo. Un approccio che solo per superficialità fu definito conservatore. Friedman odiava ogni irrigidimento sociale e la sua filosofia morale ne è testimone continua. Contro tutti i proibizionismi, a partire da quelli sulle droghe, contro ogni eccesso di regolamentazione, a partire da quelle burocratiche, contro ogni impedimento alla libertà di scelta. Fu Friedman il più solido fautore, in tempi di Vietnam, della leva volontaria in materia di servizio militare. Fu il giovane economista newyorkese che scrisse il suo dottorato contro le corporazioni protette dagli albi professionali.
Milton Friedman riuscì alla fine della guerra a rompere i fronti. Riportò lo scontro sul terreno dei principi e non fu dunque classificabile in alcuno schieramento. Vicino ai liberal sui diritti civili e vicino ai repubblicani sulle libertà di mercato. Ma soltanto negli anni 80 grazie alla Thatcher prima e a Reagan poi, la sua filosofia politica prese la forma della prassi. La sua scarsa dimestichezza con il commercio della fama e la cultura dell'ego, lo ha sempre tenuto un po' in disparte. Le sue idee, la sua originalità hanno permeato almeno due generazioni di economisti e sono ancora al centro del dibattito.
Friedman da oggi non ci sarà più.
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