C’era una volta la rivoluzione. E i suoi cantori. Uno dei primi e più stonati fu Nichi Vendola. L’11 febbraio scorso, elettrizzato dal golpe dei militari e dalla detronizzazione di Hosni Mubarak, si lanciò in un’incontenibile elegia. «È un momento di condivisione della gioia del popolo egiziano. Diciassette giorni e tanto sangue versato sono il prezzo di un cambiamento epocale.... cadono le teste dei tiranni e il Mediterraneo torna ad essere crocevia della speranza» sentenziò il Nichi di Bari censurando «la volgarità della classe dirigente italiana, incapace di esprimere anche una sola parola di solidarietà».
Nove mesi dopo eccoci qua. Mentre la piazza torna a ribellarsi i militari mostrano il loro vero volto. Non quello di salvatori della patria, come credeva Nichi Vendola, ma di grande casta pronta a «cambiare tutto per non cambiare nulla». Pronta a sacrificare con l’aiuto e la solidarietà di Barak Obama l’ingombrante Hosni Mubarak per sostituirvi il potere opaco e invisibile dei propri generali. Ma il Nichi nazionale è buona compagnia.
Alla grande illusione della primavera araba ha contribuito tutta la sinistra. Dai suoi leader ai suoi militanti, fino ai suoi profeti nazionali e internazionali. Basta ricordare il sorridente Pier Luigi Bersani che lo scorso luglio stringe la mano ai campeggiatori di Piazza Tahrir. Oppure Sean Penn volto simbolo del movimento progressista internazionale volato anche lui il 30 settembre nella stessa piazza per ricordarci che «tutto il mondo deve trarre ispirazione dalla richiesta di libertà e coraggio dell’Egitto». Invito preceduto il 24 agosto da un articolo sull’Espresso di Massimo Cacciari in cui si vaticina per l’Italia non un governo dei professori, ma una rivoluzione in stile egiziano.
«Ricercatori, laureati, nuove professioni, free lance: milioni di giovani sono oggi da noi, e non solo in Italia, fuori da caste e palazzi. C’è da credere o temere che la loro pazienza sia ai limiti, come lo era quella dei loro colleghi maghrebini e egiziani. Come i loro colleghi d’oltre mare, si riconosceranno e si convocheranno attraverso le loro reti, le loro strade immateriali». Purtroppo d’immateriale in Egitto c’è solo la rivoluzione. Per capirlo bastava squarciare il velo di banalità regalatoci da chi celebrava una rivolta cresciuta sulle ali di internet e Faceboock. Quella rivolta era solo l’illusione di sparuti groppuscoli di liberali e democratici divisi e numericamente inconsistenti. Groppuscoli guidati da personaggi ancor più irrilevanti a livello di consenso popolare come l’ex presidente dell’Aiea Mohammed El Baradei o Amr Moussa, un ex ministro protagoniste di troppe foto ricordo al fianco di Hosni Mubarak, Ben Ali e Muhammar Gheddafi. Eppure le anime belle della nostra sinistra continuavano ad attribuire a quel marasma diviso e incoerente la capacità di regalare all’Egitto democrazia e progresso.
E con la stessa spocchia liquidavano come fole islamofobiche i suggerimenti di chi avvertiva che dietro l’esile punta di lancia liberale si muoveva il ben più coeso e inquadrato movimento dei Fratelli Musulmani. I generali egiziani possono ora ringraziare la miopia di tutte queste anime belle della sinistra occidentale.
Grazie a chi s’illudeva che il loro non fosse un golpe, ma un semplice calar di brache, hanno avuto 9 mesi di tempo per giocare impunemente tutte le loro cartucce. Prima hanno civettato con i Fratelli Musulmani illudendoli di voler spartire con loro, unica grande forza concorrente, il potere. Poi quando i salafiti lasciati liberi di agire dai servizi di sicurezza hanno incominciato ad attaccare i quartieri cristiani e inneggiare alla sharia hanno allungato una mano ai terrorizzati leader dei groppuscoli liberali.
E approfittando delle loro paure hanno patteggiato un accordo sulla costituzione capace di preservare la tradizionale egemonia dell’esercito sulla politica. E così mentre la grande scena progressista internazionale continua a cullarsi nel mito della rivolta liberale, dei militari buoni e dei musulmani moderati la scena egiziana mostra la sua autentica immagine.
Quello di una spietata lotta per il potere dove le elezioni, se mai si faranno, saranno solo un intermezzo verso il sanguinoso regolamento di conti finale tra i fratelli musulmani e i generali. Quello di un paese trasformatosi dopo la caduta di Hosni Mubarak in un campo di battaglia su cui nessuno è più in grado né d’imporsi, né di governare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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