Adesso l'Ikea mette il velo alle impiegate musulmane Sei d'accordo? DISCUTI

Le dipendenti che lo desiderano possono indossare un hijab. Ma comunque con il marchio aziendale. E' giusto? VOTA

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«Cassiere, magazziniere, aiuto cuoche e addette alle vendite. Per le impiegate musulmane dell'Ikea Edmonton Glover Drive c'è ampio spazio per esprimere la loro appartenenza religiosa. Una piccola gabbia formata da due pezzi che incornicia il volto e le etichetta immediatamente come «muslim staff». Qualunque sia la posizione professionale nel punto vendita. Accade a pochi chilometri a nord di Londra, dove per le operatrici musulmane che ne fanno richiesta la catena svedese mette a disposizione un capo di abbigliamento particolare. Un hijab confortevole in perfetto stile Ikea, con finiture giallo oro ed il caratteristico blue navy della divisa aziendale.
L'idea è nata nel 2005, dopo l'inaugurazione del nuovo punto vendita in un'area popolata da cittadini britannici di fede islamica. È lì che è stata lanciata questa nuova politica aziendale: per far sentire a proprio agio la clientela musulmana, s'inserisce un elemento considerato da molte donne il simbolo della sottomissione. Cioè il velo semi integrale. Che per altre è invece un semplice modo di interpretare l'appartenenza alla comunità.
Per attirare l'attenzione dei musulmani, la filiale inglese si è rivolta ad una società già nota nell'ambito dei copricapi islamici. The Hijab Shop, cartello sul mercato dal 2004, che attraverso l'e-commerce riceve ordini da diversi paesi del mondo. Per Ikea ha realizzato un particolare modello. Due pezzi componibili, con il logo cucito sul retro. Come coniugare confort ed equilibrio spirituale, senza urtare la suscettibilità dei giuristi dell'islam. In Gran Bretagna, infatti, gli Shaykh hanno preso in analisi anche questa iniziativa. «Il colore non è un problema per l'hijab, e finché il logo non viene apposto su di esso in modo troppo vistoso, i musulmani non hanno nulla da ridire su questa iniziativa», ha chiarito Ibrahim Mogra, già membro del Consiglio musulmano. «Non ci risultano precedenti - ha spiegato tempo fa alla Bbc uno dei portavoce di Ikea a Londra - e non abbiamo notizia di nessun'altra azienda che finora abbia abbracciato iniziative di questo genere».
La politica di Ikea non è infatti eccessivamente omologatoria. Ogni filiale si regola secondo convenienza e gestisce i suoi rapporti con i dipendenti i maniera del tutto autonoma. Il sito a cui Edmonton si è affidata è uno dei leader mondiali nella vendita di veli islamici. Thehijabshop.com sostiene di ricevere ordini da tutto il mondo, dal sudamerica al nordamerica, dalla Bosnia all'Australia al Giappone, destinando il 10 per cento degli utili a organizzazioni islamiche di beneficenza. Perciò più che aprire una polemica, che avrebbe potuto scatenare le reazioni della comunità islamica, in Gran Bretagna si è scelto di non dare importanza a quella che sembra essere rimasta una politica isolata. Solo la comunità islamica rilancia di tanto in tanto l'iniziativa di Edmonton, su blog e siti specializzati: «Noi lodiamo Ikea per aver colmato le esigenze religiose dei suoi dipendenti», ha commentato uno dei membri Consiglio culturale musulmano della Gran Bretagna. «Ci sarebbe bisogno di questi copricapi in ogni punto vendita d'Europa», scrive un altro blogger. Ma sono tantissime anche le donne che invece immettono on line il proprio disappunto: «Mi piace l'arredamento Ikea, sono musulmana, ma vado nel punto vendita soltanto per comprare la merce, non per l'abbigliamento delle commesse». Se è vero che l'hijab si sta affermando anche come accessorio di lusso, anche nel mondo anglosassone, resta da capire se siamo di fronte ad una operazione di marketing o ad una deriva comunitarista.

C'è infatti chi parla di corporate hijab, per via del logo Ikea sistemato poco sopra le spalle. Mentre la scrittrice americana Asra Nomani, per definire un'analoga iniziativa presa dal Tony Tysons Corner Center Mall, in Virginia, ha utilizzato il termine hijab chic.

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