Adesso si menano i nipoti del '68

Non ci sono più, alla Statale di Milano, i bei pestaggi di una volta, e così gli scontri di ieri fra studenti di destra e autonomi di sinistra si sono risolti con qualche calcio e qualche pugno: niente più spranghe e niente più coltelli, niente più molotov e cariche della Celere. L’episodio di ieri dovrebbe dunque restare confinato in poche righe in cronaca, come un qualcosa di anacronistico, come il patetico revival di un tempo che fu, e che per fortuna non tornerà.

Ma c’è un dettaglio che invece lo rende curioso, e quindi interessante: la presenza, fra i due schieramenti, delle nipoti di La Russa e di Cossutta, l’una contro l’altra agguerrita. È un dettaglio che in fondo dimostra quanto sia vecchia, lontana, superata, quella stagione. Il Sessantotto doveva essere la grande svolta, la rottura con il passato, la rivoluzione di una generazione che aveva deciso di ammazzare il padre, di liberarsi dagli odiosi vincoli della famiglia, dei suoi condizionamenti culturali. Uno spazzar via le tradizioni, un’emancipazione definitiva, il momento in cui i «giovani» (proprio in quegli anni i «giovani» diventarono una categoria sociale e politica) cominciavano finalmente a pensare con la propria testa. Fa quindi tenerezza constatare che quei vecchi vincoli che si volevano cancellare sono invece rimasti, anzi sembrano inestirpabili: i figli e perfino i nipoti continuano a pensare con la testa dei genitori e dei nonni e degli zii, cercano di ripeterne le gesta, ne rinnovano gli ideali, perfino le trasgressioni. Passano gli anni, ma il Dna e pure la tanto vituperata «educazione» impongono evidentemente le proprie ragioni.

Carlotta Cossutta respira ancora le idee del nonno Armando, classe 1926, iscritto al partito comunista nel 1943, poi partigiano nelle Brigate Garibaldi, poi strenuo difensore fino all’indifendibile del mito sovietico, della dittatura del proletariato, dell’uomo nuovo in attesa del sol dell’avvenire. Clelia La Russa non ha tradito invece le battaglie del papà Romano, classe 1952, e dello zio Ignazio Benito Maria, classe 1947, entrambi missini negli anni difficili, quando stare a destra voleva dire rischiare la scatola cranica, o quantomeno essere gentilmente invitati a tornare nelle fogne. Fa tenerezza, dicevamo, questa eredità che non s’interrompe, questa fedeltà che non viene meno. Tutto è cambiato dai tempi dei padri dei nonni e degli zii, non ci sono più il comunismo e il fascismo, ma evidentemente ci sono sempre una destra e una sinistra dove stare per rimarcare, magari perfino per gioco, un’appartenenza. C’è sempre anche un nemico contro cui schierarsi. Non so se Clelia La Russa e Carlotta Cossutta abbiano davvero «contezza», come si diceva nel Sessantotto, di quanto fossero orribili i tempi che ieri si è cercato in qualche modo di far rivivere. Ne dubito. Milano era un incubo, e lo era per tutti, non solo per chi si era intruppato in un gruppo di estrema destra o di estrema sinistra. Era anzi soprattutto la gente comune ad avere paura.

Andiamo indietro con la memoria di quarant’anni e riviviamo gli scontri di via Larga in cui morì l’agente Annarumma, l’assalto con le molotov al Corriere della Sera, la strage di piazza Fontana, la morte di Pinelli e l’assassinio del commissario Calabresi, e poi tanti poveri studenti ammazzati, Ramelli e Brasili, Franceschi e Zibecchi e Varalli. Quanto sangue. E per cosa? Per follie. Da una parte e dall’altra. In nome di un mondo che si voleva migliore, si rendeva peggiore quello in cui si viveva. Si aveva paura a circolare in città. Ce l’avevano le mamme con i bambini, che evitavano accuratamente di passare per il centro, per quelle poche maledette centinaia di metri quadrati che andavano da piazza San Babila a piazza Santo Stefano, da via Festa del Perdono a corso Monforte. Ce l’avevano anche gli studenti neutrali - la stragrande maggioranza, però inerme e indifesa - che avrebbero voluto semplicemente studiare, per poi laurearsi, per poi trovare un lavoro, per poi farsi una famiglia: tutte vecchie «porcherie borghesi» per chi si riempiva la bocca di democrazia ma poi trasformava l’università in un soviet nel quale chi non era allineato non aveva diritto né di parola né di incolumità. Massimo Fini racconta che, inizialmente, aderì al movimento di sinistra, ma ne uscì immediatamente non appena vide il pestaggio di un ragazzo che non ci stava a tenere bordone ai Capanna e ai Cafiero: «Ricordo che per lo schifo andai a vomitare nei cessi della Statale». Cari ragazzi. Cari nipoti. Può anche essere commovente l’affezione che portate verso la storia dei vostri genitori, dei vostri zii, dei vostri nonni. Ma state alla larga dalla macabra sbornia di quel tempo che la storia si è infallibilmente incaricata di condannare. Non c’è nulla da rimpiangere, nulla da riproporre.

Chi allora voleva la rivoluzione per creare il paradiso in terra, ha prodotto solo tanti inferni sparsi per il mondo: e da tempo ha dovuto rinnegare simboli e modelli di cui l’umanità si vergogna. E chi, per contrasto, voleva riportare l’ordine, non fece altro, molto spesso, che aggiungere violenza alla violenza.

State alla larga da quei cosiddetti «ideali», che quasi sempre non erano che il pretesto per menare le mani. Anche perché oggi i vostri nonni e i vostri padri non litigano più per un mondo più giusto, ma per un posto nel consiglio di amministrazione della Rai.

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