Afghanistan: il Pdci si ritira, governo in bilico

L’operazione italiana a Kabul viene ridimensionata: non ci sarà alcun invio di nuovi mezzi

Roberto Scafuri

da Roma

Il vertice dell’Ulivo è lungo, spigoloso, a tratti teso. D’Alema fa «pof-pof» e qualche pacifico origami. Sbotta di fronte all’insistenza della capogruppo comunista, Manuela Palermi: «Se vogliamo far cadere il governo, diciamolo... Ah no? Allora, dimmi, state puntando alla fiducia?». Il ministro degli Esteri conferma la preoccupazione del governo per la situazione in Afghanistan, di cui discuterà al G8, e ai rifondatori e verdi che mediano e mediano, si rivolge ironico, quasi bonario: «Ci state imbrogliando... Questo monitoraggio permanente, senza fissare una data, introduce una sorta di precarietà della missione...». E il capogruppo ulivista Franceschini s’ingelosisce interrompendo l’appeasement: «Il governo però tenga conto che non ci sono soltanto Rifondazione e i Verdi...».
Alla fine l’accordo sulle missioni militari c’è. Un solo decreto da varare venerdì, e probabilmente senza ricorso alla fiducia. A meno che Prodi decida di non correre il rischio di «inquinamento» della maggioranza, visto che anche ieri l’Udc (Baccini) ha ribadito la disponibilità a votare per il decreto. Accantonata, per il momento, l’ipotesi di varare il decreto e parallelamente far viaggiare in aula un disegno di legge-fotocopia, che renderebbe «automatico» il rinnovo delle missioni, con tetto di spesa disposto ogni anno nella finanziaria. Nel decreto trova posto il ritiro dall’Irak «entro l’autunno» dei circa 1.500 militari rimasti. Nessun «ridislocamento» di uomini o mezzi in Afghanistan, dove il tetto massimo dei soldati sarà anzi diminuito di 3-400 unità. Nessun Amx di quelli richiesti dalla Nato, anche se all’inizio il governo pareva propenso a concederli. Nessun Predator, perché «non li abbiamo», dice il ministro Parisi (o forse li chiama «ricognitori»). Le truppe resteranno a Kabul ed Herat per combattere il terrorismo, per il sostegno alle autorità locali, per rafforzati compiti di ricostruzione.
Il vertice si impernia a lungo sull’istituzione di un «Comitato di monitoraggio permanente» della missione, che sembra il «grimaldello» per tenere il polso di una situazione difficile che un domani, come propone il capogruppo verde Angelo Bonelli, consenta l’elaborazione di una exit strategy in accordo con «gli organismi internazionali». Dispositivo che i Verdi vogliono introdurre nell’ordine del giorno parlamentare che accompagnerà il decreto, del quale si discuterà da martedì.
L’accordo c’è, anzi non c’è. La comunista Palermi nega che ci sia e dichiara il dissenso del Pdci. Ma non è ancora chiaro che tipo di posizione intenderà tenere il partito di Diliberto. Di sicuro ci sarà poco spazio per ulteriori mediazioni, per giunta «unilaterali», visto che la parola d’ordine lanciata da Palazzo Chigi ieri mattina è stata oltremodo battagliera. «Non ci facciamo certo ricattare, è finita l’epoca. Voglio vederli, quelli del Pdci votarci contro...», spiegava un alto esponente del governo. L’instancabile lavorio dei due capigruppo prc, Russo Spena e Migliore, assieme al filo diretto tenuto da Prodi con Giordano, pareva infatti aver indotto i ministri D’Alema e Parisi a dare tutto per scontato. Molte le omissioni e la semplice considerazione che «la discontinuità è il ritiro dall’Irak». La riunione, cominciata a mezzogiorno, si interrompeva subito. Ufficialmente, per ulteriori impegni di D’Alema. Le mediazioni (con intervento di Prodi) continuavano fino alle 17, quando nella sala Pannini del Senato ministri e capigruppi riprendevano la discussione in un’atmosfera più costruttiva.

Al termine: per la Finocchiaro «Unione compatta», la Palermi sbatteva la porta, Parisi correva a riferire a Prodi, i rifondatori andavano a spiegare l’accordo ai «dissidenti», ancora molto «critici». «Chi non ci starà è fuori dal partito», spiegavano con pacatezza nel Prc.

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