Gli Agnelli evasori? Per certa Stampa non è importante

Caro Granzotto, lei si è occupato sul «Giornale» del brutto scivolone che ha fatto «La Stampa» di Mario Calabresi, mi riferisco alla finta pagina di «Avvenire». Credo però che nel mondo dei media italiani, in questo agosto, si possa trovare una «porcata» collettiva forse più grave: il vergognoso silenzio sulla vicenda clamorosa dell’eredità di Gianni Agnelli. Ritengo uno scandalo che il 90 per cento dei quotidiani non consideri l’argomento da prima pagina e anzi lo ignori totalmente. Ma come: il presidente della Fiat, il più famoso imprenditore italiano dell’ultimo secolo, è coinvolto in una storia di questa portata, con la sua famiglia, i suoi eredi, un tesoro ipotizzato di un valore pazzesco nascosto al fisco e all’unica figlia... e i titoli vanno ai festini del Cavaliere? A Bersani che scarica Di Pietro? Al libro di Maria Latella su Veronica Lario? A Mourinho che attacca Lippi? Ma in che paese viviamo?

Non che gli altri organi d’informazione siano da meno, però vien proprio la tentazione di risponderle, caro Danubi: «È la Stampa (con la maiuscola), bellezza!». Ma ha visto con quale uterina stizza ha reagito La Repubblica (per la penna, non proprio onesta per quanto riguarda l’uso del virgolettato, di Giuseppe D’Avanzo) al fondo di Vittorio Feltri che denunciava la congiura del silenzio sulle marpionate fiscali dell’Avvocato Agnelli? Un silenzio addirittura tombale, quello scelto dalla Stampa di Torino, culla della dinastia. Tale da dar corpo ai forti sospetti di un certo conflitto di interesse che manda a gambe all’aria l’autonomia e indipendenza che a via Marenco dicono essere la loro bandiera. Il nostro è già un mestiere che non gode di larga stima, figuriamoci il livello rasoterra dell’indice di gradimento per un giornalismo ridotto a come i grandi organi di informazione lo stanno riducendo con le loro omissioni e le loro balle, il loro catastrofismo e il loro sensazionalismo gossiparo da bordello della belle époque. Adesso si capisce meglio, caro Danubi, perché quando scoppiò il bubbone certa parte reagì invelenita, deprecando (e ridicolizzando, anche) Margherita Agnelli che osava voler vederci chiaro sui conti e dunque sui risvolti ereditari del padre, l’Avvocato. Che ardiva mettere il naso negli affari della famiglia Agnelli, che è pur sempre la sua, sua di Margherita. Tutti schierati con l’esecutore testamentario, il dottor Gianluigi Gabetti. Il deus ex machina, nel bene come nel male, dell’immane papocchio. Colui che gelò Margherita con quel: «Lei non è degna d’esser figlia di suo padre» che l’interessata, giustamente, si legò al dito e che è all’origine dell’immane papocchio di cui sopra (sentirsi dire una cosa così da un dipendente, ancorché di lusso, avrebbe mandato fuor dai gangheri anche Madre Teresa di Calcutta). Siamo alle solite, caro Danubi: la farina del diavolo va sempre in crusca. Se invece di fare lo gnorri, se invece di ingiuriarla il deus ex machina avesse corrisposto a Margherita la quota del tesoretto segreto che le spettava, non saremmo a questo punto. Non sarebbero volati gli stracci, non sarebbero comparsi avvocati felloni e mariuoli, non sarebbe stata così malamente mascariata, sul nascere, la dinastia Elkan succeduta a quella Agnelli. E sì che di tempo ne hanno avuto, per metterci una pezza.

Ora è troppo tardi, come sempre quando la frittata non solo è fatta, ma anche servita.

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