Agnelli, Fiat e Marchionne Tutte le verità nascoste

Esce negli Stati Uniti un libro che racconta quello che da noi non si può dire. A partire dal suicidio di Edoardo, cui era negato persino il cellulare del padre

Agnelli, Fiat e Marchionne  Tutte le verità nascoste

Manca ancora quasi un anno al decennale della morte dell’Avvocato Gianni Agnelli (1921-2003), eppure l’editoria sta già scaldando i motori. Negli Usa Jennifer Clark, corrispondente per il settore auto di Thomson-Reuters dall’Italia, ha appena pubblicato una biografia della famiglia Agnelli che farà discutere anche da noi: Mondo Agnelli: Fiat, Chrysler, and the Power of a Dynasty (Wiley&Sons). Sulla rivista Studio (www.rivistastudio.com) il giornalista Michele Masneri, collaboratore del Foglio, ha firmato in anteprima una lunga recensione, che pubblichiamo qui. Il libro riporta indiscrezioni su Sergio Marchionne (nel fotino) e soprattutto sul rapporto tra l’Avvocato e il figlio Edoardo, del quale si svelano particolari inediti sui giorni precedenti il suicidio.

«ADetroit sono rimasti tutti molto stupiti leg­gendo il mio libro, non sapevano che in Italia si pro­ducono auto dalla fine dell’Otto­cento ». Lo racconta a Studio Jenni­fer Clark, corrispondente per il set­tore auto di Thomson- Reuters dal­­l’Italia, fresca autrice di Mondo Agnelli: Fiat, Chrysler, and the Power of a Dynasty (Wiley & Sons editori, $29.95), primo dei volu­moni in arrivo in libreria per il de­cennale della morte di Gianni Agnelli (2013). Il libro è bello, e for­se perché non è prevista (per ora) una pubblicazione italiana, non ha i pudori a cui decenni di “biblio­grafiat” ( copyright Marco Ferran­te, maestro di agnellitudini e mar­chionnismi) ci hanno abituati.

E partiamo da Marchionne, fi­gura che rimane misteriosa, mo­nodimensionale nei suoi cliché più utilizzati- le sigarette, il super­lavoro, l’equivoco identitario (l’abbraccio del centrosinistra con la definizione fassiniana di “li­beraldemocratico”, il ripensa­mento imbarazzato). L’aneddoti­ca sindacale è una chiave interes­sante invece per capirne di più.

Sul Foglio dell’11 febbraio scor­so, un magistrale pezzone sabbati­co di Stefano Cingolani (conflitto di interessi: chi scrive collabora col Foglio , mentre Marco Ferran­te è un valente Studioso) racconta­va che Ron Gettelfinger, indimen­ticato capo della Uaw, United Au­to Workers, il sindacato dell’auto Usa, alla fine della trattativa lacri­me e sangue che ha portato all’ac­cordo Fiat- Chrysler, in cui i sinda­cati hanno aderito a condizioni molto peggiorative in termini di salari e di ore lavorate in cambio di una partecipazione nell’aziona­riato della fabbrica, «rifiuta di stringere la mano al rappresentan­te della Fiat».

Clark non solo conferma l’epi­sodio ma gli dà una tridimensiona­lità. «Tutto vero. Me l’ha confer­mato Marchionne stesso. Nelle fa­si più dure della trattativa, Gettel­finger e Marchionne hanno un di­verbio.

Marchionne, che notoria­mente è un negoziatore ma non un diplomatico, dice una frase precisa: “i sindacati devono abi­tuarsi a una cultura della pover­tà”. Dice proprio così, “a culture of poverty”. Gettelfinger diventa bianco, più che rabbia è orgoglio ferito e offesa. Gli risponde: “lei non può chiedere questo a un sin­dacato. A chi rappresenta operai che si stanno giocando i loro fondi pensione”.Marchionne mi ha det­to di essersi non proprio pentito, ma insomma...».

Sempre coi sindacati, Clark rac­c­onta che col successore di Gettel­finger, General Hollifield, volano parolacce irripetibili. Hollifield, primo afroamericano a ricoprire un posto di prestigio nell’aristo­crazia sindacale americana (è vi­cepresidente della Uaw e delega­to a trattare per la Chrysler) è gros­so e aggressivo quanto Gettelfin­ger è azzimato e composto. La trat­tativa tra i due sembra un match tra scaricatori di porto. Con questi presupposti, pare un po’ difficile credere alle voci ( riferite dal New York Times e rim­balzate in Italia) secondo cui l’ad Fiat avrebbe pianto alla visione dello spot patriottico Chrysler di Clint Eastwood.

Anche qui Clark spiega una sfu­matura non banale. «No, non sa­rebbe strano. Marchionne è un uo­mo molto emotivo. Non sarebbe la prima volta. Per esempio, quan­do il presidente Obama annunciò il salvataggio Chrysler in televisio­ne, Marchionne era in un consi­glio di amministrazione di Ubs a New York. Vede la scena, si com­muove e chiede di uscire dalla sa­la, per non farsi vedere piangere». Attenzione, però, perché Mar­chionne non usa mai l’espressio­ne «crying». Dice solo: «I almost broke down». Almost. E al passa­to. E a rileggere il New York Times , che racconta di come l’ad Fiat si sia commosso vedendo lo spot in­sieme ai suoi concessionari, an­che lì si racconta come lui chiede di uscire dalla stanza, ha gli oc­chi lucidi. Ma nes­suno lo vede poi real­mente piangere. «Per lui piangere è un valore» dice Clark. «Piangere va bene, perché significa tenerci molto a una co­sa ». Sembra sempre che stia per piangere, ma a ben vedere nessu­no l’ha mai visto in azione. «Sì, è emotivo, ma non è sentimentale». Piangere va bene ma è meglio se lo fanno gli altri. Come Laura So­ave, capo di Fiat Usa, “mamma” dello sbarco della 500 in America. Per la manager italiana, Mar­c­hionne organizza una strana car­rambata. Salone di Los Angeles 2010: Soave decide di utilizzare per il lancio una gigantografia di una sua vecchia foto da bambina, in cui lei siede proprio nella stori­ca 500 arancio di famiglia.

Ma Marchionne, a sua insapu­ta, e come un autore Rai, fa arriva­re da Napoli i suoi genitori, che ap­paiono all’improvviso nel bel mez­zo dello show. Lei piange, il suo amministratore delegato è molto soddisfatto. (Poi dopo qualche mese la Soave verrà licenziata in tronco, episodio frequente nel­l’epica marchionniana).

À rebours. In fondo il libro si chiama Mondo Agnelli . Incombe il decennale, tocca fare la fatidica domanda: differenze-similitudi­ni tra Marchionne e l’Avvocato. «Marchionne è considerato mol­to esotico, qui. Lo era già prima, con quei maglioncini e quell’ac­cento, ma adesso lo è ancora di più con il nuovo look barbuto. Poi fa battute, scherza con gli operai e coi giornalisti, conosce il suo pote­re s­ui media e lo esercita consape­volmente. In questo è simile al­l’Avvocato. Ma anche a Walter Chrysler, il fondatore del gruppo. Poi si staglia sul grigiore. Bisogna pensare che come alla Fiat i diri­genti erano tutti torinesi, qui in Chrysler sono tutti del midwest». «Però in America pochi si ricor­dano di Gianni Agnelli. Ormai le nuove generazioni non sanno nul­la.

Devo spiegare che l’Avvocato era amico dei Ford e dei Kennedy per suscitare qualche vago ricor­do. A una presentazione a New York, quando ho detto che la Fiat è più antica della Ford, la gente era veramente stupita». Nessuno si immaginerebbe che il Senatore Giovanni Agnelli nel 1906 aprì la sua prima concessionaria ameri­cana a Manhattan, Broadway.

Ma tra i ricordi agnelliani, la par­te più interessante del libro di Jen­nifer Clark è forse quella che ri­guarda gli ultimi giorni di Edoar­do, il figlio sfortunato di Gianni, morto suicida nel 2000. La giorna­lista Reuters è andata a spulciarsi le carte della polizia torinese, per­ché un’inchiesta, per quanto velo­ce e riservata, vi fu. I dettagli sono tristi e grotteschi: Edoardo che non ha un numero privato del pa­dre, e per parlarci deve passare a forza per il centralino di casa Agnelli; le sue ultime chiamate con il suo uomo di scorta, Gilberto Ghedini, a cui chiede piccole in­combenze, come spostare l’ap­puntamento col dentista.

Una telefonata ad Alberto Bini, una sorta di amico-tutore che da dieci anni lo segue giornalmente dopo l’arresto per droga in Kenya nel 1990. Le conversazioni quoti­diane di teologia islamica con Hussein, mercante iraniano di tappeti di stanza a Torino. È molto preoccupato per le sue finanze, co­sa di cui mette al corrente il cugi­no Lupo Rattazzi, incredulo.

Manda qualche mail (le pas­sword dei suoi account, come rico­struisce l’indagine della polizia, sono “Amon Ra”, “Sun Ra” e “Je­di”). L’ultimo file visualizzato sul suo computer è una pagina web su Nostradamus. Poi, la lenta pre­parazione: per tre giorni di fila, Edoardo si alza presto, si veste ac­curatamente, guida la sua Croma blindata fino al ponte sulla Torino-Savona da cui si butterà il 15 no­vembre.

Tre giorni prima, conse­gna a suo padre e a una persona di servizio particolarmente cara una sua foto. È su un ponte, con un vestito formale, un leggero sorri­so. «Voglio essere ricordato così», dice alla persona di servizio.


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