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«Ahmadinejad assaltò l’ambasciata Usa»

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Il governo di Teheran smentisce, quello di Washington non esclude un’inchiesta. Sono le due risposte prammatiche, obbligatorie alle «rivelazioni» secondo cui il nuovo presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad avrebbe partecipato di persona, il 4 novembre del 1979, all’assalto all’ambasciata americana e alla cattura di 52 diplomatici, che rimasero in ostaggio per ben 444 giorni. A riconoscerlo sono stati proprio tre fra gli ostaggi, dimostrando una memoria considerevole ma non stupefacente se si calcola che, se Ahmadinejad era fra i carcerieri, ai carcerati non è mancato certo il tempo per imprimersi i suoi tratti. Non tutti gli ex ostaggi lo hanno riconosciuto e due sviluppi sono ora entrambi perfettamente possibili: che il riconoscimento sia stato effettivamente un errore e che sia invece giusto ma convenga ad ambedue le parti negarlo, per non aggiungere una punta ulteriore di acrimonia personale a una situazione che è già obiettivamente alquanto tesa.
La partecipazione dell’attuale presidente della Repubblica islamica iraniana all’assalto all’ambasciata è infatti, anche se non vera, assai verosimile. Ahmadinejad faceva parte, allora molto giovane, della milizia Basij, le cosiddette Guardie della Rivoluzione, fanatiche sostenitrici dell’ayatollah Khomeini e del suo profondo odio per l’America, che per anni egli definì, prima e dopo la sua ascesa al potere, come il «Grande Satana». Il «Piccolo Satana» era lo scià Reza Pahlevi, che gli integralisti, dopo averlo cacciato dal trono, volevano sottoporre a processo per i suoi «crimini» (più o meno come gli americani fanno ora con Saddam Hussein, il dittatore che hanno abbattuto loro nel vicino Irak).
Washington si rifiutò di consegnar Pahlevi e questa fu la scintilla per l’assalto alla rappresentanza diplomatica Usa. Certamente Mahmoud Ahmadinejad non fu uno dei leader. Aveva 23 anni e di Guardie come lui ce n’erano milioni. Ce ne sono milioni anche adesso ed è uno dei motivi per cui egli è stato eletto alla massima carica politica di Teheran. Né sembra aver cambiato opinione sull’America. Entrando nella sezione elettorale per votare, egli ha avuto cura di passare sopra una bandiera americana dipinta sul pavimento. Nella sua prima conferenza stampa, il giorno dopo, ha rifiutato l’idea che l’Iran abbia bisogno di migliorare o costruire un rapporto particolare con gli Usa e si è impegnato ad andare avanti con il programma nucleare che Washington intende invece impedire quasi ad ogni costo. Insomma, Mahmoud Ahmadinejad la pensa più o meno come la pensava il 4 novembre 1979, si trovasse egli fra i kidnappers all’interno dell’ambasciata o fra le centinaia di migliaia di giovani che dall’esterno applaudivano e cantavano truci slogan.
La sua elezione ha colto di sorpresa soprattutto gli ottimisti, coloro che a Washington si erano convinti che l’Iran stesse muovendo, soprattutto per volontà dei giovani, verso una liberalizzazione che costituirebbe il più grande successo pensabile per la grande strategia di Bush di democratizzazione, anche forzata, del Medio Oriente e in genere dei Paesi retti da dittature. Il risultato di Teheran è un brusco risveglio, anche perché rivela come i risentimenti politici resistano anche ai «disgeli» culturali. La cultura popolare americana si estende anche in Iran, il best seller nelle librerie di Teheran sono in questo momento le memorie di Bill Clinton. I giovani non «odiano» l’America, però chiedono «rispetto». Soprattutto per la «sovranità» dell’Iran, di cui il programma nucleare è non solo parte integrale ma simbolo.

Una delle difficoltà per Washington nasce da questa contraddizione tra due fini egualmente dichiarati: recuperare le simpatie degli iraniani ma al tempo stesso denuclearizzarli, cioè disarmarli.

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