Ahmadinejad attacca i riformisti: «Siete spie e traditori dell’Iran»

Accuse ai moderati che cercano di evitare al Paese pesanti sanzioni

Ora non è più lotta intestina, né sorda e silenziosa guerra di potere. Ora è scontro vero, battaglia fragorosa, cozzare di scudi capace di minare le fondamenta del regime iraniano. Lo sbandiera ai quattro venti il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Schietto e ridondante come sempre, va in visita all’università dove si è laureato e denuncia davanti agli studenti i «traditori» della patria, minaccia di esporli al pubblico ludibrio definendoli «meno intelligenti delle capre». Si risparmia i nomi, ma è come se scrivesse Rafsanjani, Khatami, Mousavian e Rowhani su tutte le lavagne dell’ateneo Elm Va Sanat, l’università della Scienza e della Tecnica di Teheran.
Quei quattro nomi sono in definitiva una persona sola. L’ex presidente riformista Mohammed Khatami e gli ex negoziatori nucleari Hossein Mousavian e Hassan Rowhani, restano emanazioni di Akbar Hashemi Rafsanjani. Solo lui può oggi strappare ad Ahmadinejad la protezione della Suprema guida Alì Khamenei, far saltare il tavolo di comando su cui operano - all’ombra della presidenza - i generali dei pasdaran e i capi dei servizi segreti cresciuti alla scuola all’ayatollah Mesbah e Yazdi e dell’oltranzismo religioso.
Rafsanjani, lo «squalo» come lo chiamano, non è «avversario» da poco. Per decenni ha controllato l’economia del potere, ha manovrato le fondazioni dove dopo la rivoluzione sono state concentrate le risorse del Paese e i beni sottratti alla casta dello scià. Continua a controllare numerosi reparti dell’esercito e dei servizi di sicurezza. I generali dei pasdaran e gli altri grandi manovratori occulti di Ahmadinejad hanno invece costruito una Stato nello Stato appaltando lo sviluppo del Paese alla macchina militar-industriale dei Guardiani della Rivoluzione. Questa sorta di casta islamico-guerriera, questa Spa del cannone e della preghiera, utilizza la sfida nucleare come l’ariete dietro cui condurre l’assalto al potere. Non a caso le nervose sferzate di Ahmadinejad si incentrano proprio su chi, nel gruppo di Rafsanjani, chiede un atteggiamento più moderato sul nucleare evitando al Paese le sanzioni economiche e la contrapposizione politico-militare con l’America e il resto del mondo.
«Quelli sono traditori, ma noi rispetteremo il patto con la nazione, non indietreggeremo - ulula il presidente -, e se non la smettono di esercitare pressioni sulla questione nucleare esporremo il loro comportamento davanti a tutta la nazione iraniana». Le intimidazioni di ieri erano state precedute dalle insultanti dichiarazioni domenicali quando - secondo il quotidiano Etemad-e Melli - aveva definito «più stupidi delle capre» i nemici del nucleare. Sul caso di Mousavian, l’ex negoziatore inquisito lo scorso maggio per aver rivelato i segreti nucleari del Paese e poi scagionato, il presidente va giù ancora più duro accusando i riformisti di aver corrotto i giudici.
Da tutte quelle minacce emerge chiaramente un certo nervosismo, la consapevolezza di una sfida sempre più difficile. Lo «squalo» da settembre controlla l’Assemblea degli esperti, l’organo costituzionale a cui spetta non solo la nomina della Suprema Guida, ma anche una sua eventuale rimozione in caso di comprovata inadeguatezza. Se una rimozione resta impensabile, la successione potrebbe non esserlo. Da mesi si sussurra di un Alì Khamenei sempre più malato, si bisbiglia di una sua partecipazione sempre più flebile ai processi decisionali, si dà per certa, dopo la rimozione e la sostituzione del negoziatore nucleare Alì Larijani, una sua crescente sottomissione all’influenza del presidente e dei Guardiani della Rivoluzione.
Rafsanjani è l’unico in grado di bloccare o invertire questo processo. Sfruttando il risentimento di un Parlamento sempre più ignorato si è guadagnato l’appoggio di gran parte dei deputati conservatori. Teoricamente ha dunque gli strumenti per delegittimare il presidente, il governo e perfino la Suprema Guida.

Ahmadinejad lo sa, e dietro il suo gran strillare si nasconde il tentativo di continuare a muovere la sfida nucleare, di continuare a buttar carbone nella locomotiva scelta da lui e dai generali per conquistare il controllo della nazione.

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