Albanese: «La satira? Mai a senso unico»

Paolo Brusorio

da Milano

Se gli altri corrono, lui prova a rallentare, solo così riesce a vedere quello che gli accade intorno. Immagazzina, elabora, pensa e ripensa, metabolizza e poi butta fuori tutto sul palcoscenico. Antonio Albanese è fatto così, da ottobre misura l’Italia in lungo e in largo con Psicoparty (scritto con Michele Serra), il suo nuovo spettacolo. E da giovedì prossimo sarà a Milano, città grembo di un pugliese nato a Olginate, in provincia di Lecco, che ha il sud nella testa e il nord nelle gambe. Che vive a Bologna, ma che ha comprato un terreno in Toscana: l’ha dedicato a suo nonno e lì ci fa crescere gli ulivi con il nome dei suoi amici. Albanese si muove solo se ha qualcosa da dire, altrimenti guarda. Ecco, Psicoparty è questo, il risultato di molte osservazioni. In scena ci vanno le paure, il costante tentativo di disumanizzare la nostra quotidianità, angosce e fobie, il terrorismo ma anche il vicino di casa con l’auto più bella della tua. Albanese, uno spettacolo sulla paura: non c’era proprio un altro modo di far ridere? «La paura di perdere la serenità ci perseguita da anni. C’è un’indifferenza crescente nella società che mi spaventa molto, l’ho notata in questi anni studiando le persone. E ho deciso di parlarne a modo mio». Facciamo davvero una vita così brutta? «No, qualcosa di buono c’è. Ma per lasciare il segno la comicità deve avere delle motivazioni molto forti, deve trascinarsi degli scheletri. Io so fare questo. Portare in scena le nostre paure è un modo per provare per esorcizzarle». Come? «Non ho soluzioni. Mi limito a mettere sul tavolo le situazioni che ci circondano». In Psicoparty ritorna Epifanio: perché proprio lui? «Perché uno dei modi per uscire da questa condizione è fare ricorso alla dolcezza e all’ingenuità. Epifanio ha tutte e due le cose, è lui il vero trasgressivo dei nostro tempo». Ha sempre scelto il monologo. A quando un lavoro corale? «Per ora non sento la necessità di raccontare insieme ad altri le mie sensazioni, quello che vedo. Ma, è vero, la prossima volta mi piacerebbe lavorare con qualche amico. Per esempio Bentivoglio, con cui avevo girato La lingua del santo». Comicità stupida, intelligente, trash, sofisticata: comunque siamo all’overdose. Come fa a distinguersi Albanese? «La comicità è libertà, quindi il problema non è la quantità, ma i gusti e il rispetto. Certo, l’esasperazione televisiva non rende un buon favore al nostro mestiere, una volta prima di approdare in tv un comico aveva bisogno anche di dieci anni di gavetta, ora c’è gente che pesca un personaggio, viene lanciato e rischia di bruciarsi subito. Bisogna avere la capacità di aspettare, ma si torna al punto di partenza: manca la serenità per farlo». Se Zelig fa dieci milioni di spettatori, indietro non si torna... «Lo so, quando si annusa la popolarità è molto difficile rinunciarci. Ma bisogna studiare, non basta un personaggio vincente». Anche lei, però, è figlio della tv: se Su la testa con Paolo Rossi l’ha lanciata, Mai dire gol l’ha consacrata. «La tv è una grande fiera. Prima di Su la testa facevo cento persone a sera; dopo, riempivo un tendone da duemila posti. Quelli della Gialappa sono molto bravi a scegliere i comici e a interagire con loro. L’anno scorso ho fatto un paio di puntate, non vedevo l'ora di tornare». Chi le piace dei nuovi comici? «Stefano Chiodaroli. Quello di “Piera...”: ha una fisicità strana e interessante». A cosa ha detto di no Albanese? «Dopo il successo di Mai dire gol mi hanno proposto di tutto. Dissi di no a Pippo Baudo che mi voleva a Sanremo, non mi andava. Uno deve fare quello che è capace e non snaturarsi per i soldi. Ho vissuto per anni con un milione al mese, non sono ingordo. Certo vorrei comprarmi un Bacon originale, ma so che non sarà mai possibile. E allora vado per la mia strada». Ha detto: «Sto disperatamente cercando di non essere famoso»: Che cos’è snobismo? Non le farà mica schifo il successo? «Per nulla. Ma ho bisogno di fare questo lavoro senza condizionamenti. E vedere che il pubblico mi segue, mi riempie di gioia». Si è sempre tenuto lontano dalla militanza politica televisiva: opportunismo o paura di essere strumentalizzato? «Di politica non me ne intendo, non riesco a captare gli umori della gente. Preferisco la gestualità, la satira di costume. La colpa non è mai di uno solo e credo sia limitato prendere di mira un unico obbiettivo».

Ha sentito, Katia Ricciarelli, sua partner nell’ultimo film di Pupi Avati, andrà alla Fattoria: sorpreso? «Katia è una persona onesta e seria che ha voglia di cimentarsi con nuove esperienze. Io non so nemmeno cosa sia la Fattoria, ma se ha deciso di andarci è perché ne è convinta. E allora, vivaddio, fa benissimo».

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