Economia

«Alimentare: piccolo forse è bello ma grande è diventato necessario»

Vittore Beretta, vicepresidente degli industriali di settore: «Crescere per esportare e vendere alle reti di ipermercati»

Paolo Giovanelli

da Milano

Piccolo è brutto, o perlomeno difficile: il futuro è fatto di fusioni e di alleanze, perché senza la grande dimensione l’impresa alimentare italiana non può più essere competitiva nei confronti della concorrenza straniera. E senza grande dimensione diventa anche impossibile esportare. Non solo, ma anche Parmalat e Cirio non sono affatto esemplari come casi industriali: sono eccezioni dovute a una cattiva gestione finanziaria e a errori che poco hanno a che fare con l’attività alimentare. Vittore Beretta, amministratore delegato dell’omonima azienda di salumi e vicepresidente di Federalimentare, vede grosse trasformazioni all’orizzonte, confortato anche dall’indagine che verrà presentata domani al convegno delle imprese di settore.
«Noi non possiamo dimenticare che a valle abbiamo la grande distribuzione - afferma -, una volta c’erano tanti piccoli negozi, oggi in Europa ci sono cinque grandi centrali che controllano il 75% del mercato. Vendendo ai grandi, se si vuol restare competitivi bisogna diventare grandi: l’Ue è ormai un unico grande Paese e i piccoli non hanno la capacità di andare a vendere in Europa, né tantomeno in altri continenti, che sono il futuro del nostro settore».
In altri termini: il mercato italiano molto di più non può crescere?
«La vera crescita sarà fuori dall’Ue, dove ci sono milioni di bocche: è la grande frontiera. Ci sono buone opportunità per salumi, formaggi, vini, bevande, grappa. Per la pasta meno, la si può produrre in loco, il San Daniele no. Gli altri ci possono imitare, ma i maiali italiani sono speciali, la tecnologia e il territorio ce li abbiamo solo noi. Dobbiamo puntare sui prodotti Dop (denominazione origine protetta)».
Però non sempre i prodotti di base sono italiani.
«Non sempre: per lo speck importiamo da Germania e Olanda e poi lavoriamo la materia prima. La bresaola viene fatta con carne argentina lavorata in Valtellina».
Lei dice: andare all’estero. In compenso i gruppi stranieri sono venuti in Italia, poi se ne sono andati.
«Nestlè ha comprato Vismara, Danone la Galbani, Kraft la Negroni e Fini, poi hanno abbandonato perché le multinazionali odiano gli alti e bassi del mercato e la redditività equa, ma che non cresce in fretta».
E voi?
«Beretta è un gruppo che oggi fattura 330 milioni l’anno e che nell’ultimo decennio ha quintuplicato il giro d’affari con investimenti e acquisizioni. In Italia siamo grandi, ma in Europa siamo piccoli: siamo destinati a crescere. Piccolo sarà forse bello, ma grande è necessario. E per crescere cerchiamo di anticipare le tendenze: oggi il 70% del mercato dei salumi è fatto da prodotti che vengono affettati in negozio. Domani cambierà, e il 78% del nostro fatturato è già fatto da cubetti, würstel, salamini pronti per il consumo.

Anche questo è innovazione».

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