Politica

All’asta la Hollywood di Cecchi Gori

Cinzia Romani

Questo benedetto cinema italiano è schizzato sul serio. Da una parte piange per gli incentivi di papà Stato che non bastano mai e anche le ideuzze che magari poi sono ideone, finisce che il pubblico - s’arrabbiano registi e produttori - «proprio non è capace di apprezzare». Dall’altra invece si fa piccolo piccolo, fino a sparire. È il caso dell’esecuzione immobiliare in corso, nella Hollywood sul Tevere, che vede il produttore e proprietario di sale cinematografiche Vittorio Cecchi Gori alla rincorsa del pubblico incanto. E d’incantevole c’è nulla nell’essere esecutati (orrendo termine leguleio), ossia privati dei propri immobili per via di debiti pregressi, come qui. Dove il fidanzato «fuggiasco» di Valeria Marini, al quale lei in uno spot pubblicitario invoca perlomeno una videochiamata, potrebbe vedersi sfilare da sotto il naso cinema quali l’Ambassade e il Reale, il Royal e il New York, l’Adriano e l’Atlantic e il mitico Volturno, sala cinematografica in disuso, già frequentata da soldati in libera uscita e in cerca di emozioni. Prezzo base complessivo oltre i 26 milioni d’euro.
Si tratta di sette sale, che scatenerebbero l’appetito di qualunque scalatore, vista la centralità dei posti in cui sorgono gli immobili a Roma: da Trastevere alla Stazione Termini, da Prati alla Tuscolana, i quartieri fanno - come si dice oggi - la location. Ha un bel ripetere, lo staff del produttore, che i lotti vengono messi all’asta «per motivi burocratici soltanto» e che tutto si risolverà per il meglio. Intanto, già andare in una multisala comoda, quale l’Adriano, detto «Palazzo del Cinema» per via della sua mole imponente a un passo da Castel Sant’Angelo, pensando che si entra in una proprietà battuta all’asta (prezzo base: euro 10.120.000,00), è la misura di come vanno le cose. C’è un punto di aggregazione, per chi ama la settima arte, agevole per il borgataro e il pariolino, uniti, nel finesettimana, dal rito del popcorn davanti al grande schermo? Zac, via, tabula rasa, al miglior offerente. Certo, papà Mario Cecchi Gori, il cui faccione ilare e triste al contempo occhieggia al piano terra della multisala con le scale mobili, si rivolterà nella tomba. Al solo pensiero che il Tribunale Civile di Roma, sezione IV, ha messo l’occhio sulla sua creatura prediletta, Cecchi Gori senior dall’alto rabbrividirà. C’è da scommetterci.
Per ora, i legali del produttore, già sposato con Rita Rusic (detta «la cosacca» da papà Mario, che vide sempre di malocchio l’inserimento della bella nuora nel core business di famiglia) hanno dato la consegna del silenzio al loro assistito. Ma siccome le aste giudiziarie ruotano su un cardine, che va unto, non importa da chi, è lecito non dormire proprio tra due guanciali. Di fatto, compaiono elementi di fiaba e sortilegio, in questa vicenda tutta italiana, a partire dal numero della sale (7, numero magico nella cabala universale) e dalla terminologia del «pubblico incanto». Poi, però, uno si ricorda che, marxianamente parlando, la proprietà è un furto e i conti, meno fiabescamente, tornano tutti.

E meno male che, almeno stavolta, non toccherà levare la pagnotta alle mascherine e ai venditori di programmi di sala, affettuose figure professionali, care nel ricordo a chi, ancora, s’arrabbatta per andarsi a vedere un buon film.

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