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Dai cetrioli alla gloria nell'hockey: essere Wayne Gretzky

Discendente di una modesta famiglia di emigranti sovietici in Canada, costretto a lasciare la sua città per invidia, quindi sovrano indiscusso sul ghiaccio

Wayne con la maglia degli Oilers
Wayne con la maglia degli Oilers

Il momento migliore per la semina è di solito la fessura di tre mesi che va da maggio a luglio. Bisogna scavare delle piccole buchette nel terreno, a distanza di trenta centimetri l’una dall’altra, quindi si gettano tre semi e si copre. Servono anche robusti pali di legno, meglio se alti un paio di metri, e irrigazione abbondante, due volte al giorno. Tutte queste cose però non gliele devi mica spiegare ad Anton e Maria. Loro maneggiano la coltivazione del cetriolo con superba disinvoltura. Anche qua, a due passi da Canning, Ontario, dove spesso il freddo copre i pensieri.

Il clima glaciale non può spaventarli. Lui è fuggito dalla Russia prima che la rivoluzione d’ottobre divampasse. Lei ha nitide origini ucraine. Il Canada, in confronto, pare una landa extraterrestre. Il gelo però è sempre lo stesso. Li scalda il fatto di conoscersi, per caso, a migliaia di km da casa. Hanno preso una fattoria radunando i rimasugli di denaro prima di partire e ora contemplano quella coltivazione dai vetri appannati della sala che dà sulla veranda. Pare che la società canadese non li abbia accolti srotolando tappeti dai toni accesi. Se a questo aggiungi che l’economia nazionale tossicchia, non è certo sicuro che ce la facciano, ma comunque ci credono.

E alla fine hanno ragione. Nel 1938 il mondo è già un prospetto passivo - aggressivo, ma non è ancora collassato sull’orlo di una nuova follia. Nasce Walter, il loro primo figlio, e mica possono saperlo che quell’evento invertirà la rotta tiepida di una famiglia dignitosa. Il ragazzo cresce in fretta e altrettanto rapidamente sbanda e balbetta quando conosce Phyllis, seducente anglosassone che ricambia senza fronzoli. Acceleriamo ancora per strofinarci contro il punto della narrazione, che inizia dai cetrioli e atterra dentro la gloria imperitura. La giovane coppia si trasferisce quando Walter viene preso alla Bell Company: cavi che si intrecciano, telefoni trillanti, stipendio sostanzioso alla fine del mese.

Abbastanza per convincersi a metter su famiglia. Pochi mesi dopo il matrimonio nasce Wayne il loro primogenito. Dopo di lui arriveranno, in sequenza, Kim, Keith e Brent. Ma questa non è un’epopea familiare. Vuole essere una storia di hockey su ghiaccio. Lo snodo arriva quasi per caso dalla preoccupazione paterna: meglio costruire una pista dietro casa, così quei pivelli evitano di andare a cacciarsi nei guai in periferia. Stanno a Brentford, che non è male, ma nemmeno chissà cosa. I sabato sera sono tutti riuniti nell’ampio salotto di tre pezzi disseminati intorno alla tv. In casa Gretzky l’hockey va in onda a reti unificate. Il piccolo Wayne scarta una mazza per Natale ed è subito una botta dilagante di serotonina. Mamma lo iscrive in una squadra locale: hanno tutti dieci anni e lui solo sei. Però su quel ghiaccio scivola con una naturalezza disarmante. Nella divisa della squadra ci naviga: tocca rinfoderarla nel lato destro dei pantaloni. Lo farà per l’intera carriera.

Un bambino d’oro. Un prodigio troppo irradiante per essere contenuto tutto in questa modesta comunità. Che poi, più i perimetri sono angusti, più cercano di coprirti se in qualche modo brilli: la mediocrità è l’unica portata contemplata. Così Wayne cresce in un contesto parzialmente tossico. Ogni sua impresa comincia ad essere avviluppata dall’edera maligna del risentimento altrui. A dieci anni, per dire, ha già segnato 378 gol e 179 assist. Fa sedere in panchina gente molto più grande e grossa di lui. Sufficiente per far implodere la bile di genitori che schiumano rabbia a bordo campo. Alcuni, addirittura, impugnano taccuini e cronometri per segnarsi quanto gioca il piccolo Gretzky al posto dei figli e pigolano davanti all’allenatore di turno.

Wayne intanto se ne frega: a tredici anni disintegra il muro dei mille gol. Mamma e papà però sono preoccupati a tal punto che decidono di cambiare aria. Troppo velenoso l’ambiente - extra campo - che sta montando intorno al figlio. Assurdo che la comunità in cui vivi non gioisca dei tuoi successi, ma in fondo nemmeno troppo: la rudimentale pochezza dell’animo umano sedimenta in superficie più dei pensieri positivi.

Quindi tutti infilati nella station wagon, famiglia, pattini e mazze. Il nastro d’asfalto che si srotola davanti inamida d’incertezza i pensieri, ma Toronto è una grande città e lì Wayne potrà sentirsi più libero, svincolato da ogni pressione. Esordisce nella NHL nel 1979 con gli Edmonton Oilers, quando ha appena diciotto anni. Da quel tappeto di ghiaccio nessuno lo schioderà più: vince il premio come miglior giocatore della stagione per sette volte consecutive, solleva quattro campionati e, con quella mazza e quelle cadenze indecifrabili, sbriciola ogni record in fatto di segnature.

Cambierà poi casacca, passando - in vent’anni di carriera - da Los Angeles a New York, sempre con la stessa invincibile attitudine. Al culmine della sua lunga pattinata la NHL lo definirà il miglior giocatore di sempre nella storia di questo sport, ritirando la sua maglia, la numero 99. Oggi, fuori dallo Staples Center di LA, ma pure di fronte al Rexall Place di Edmonton, campeggiano statue che lo raffigurano. Su entrambe è incisa una scritta inequivocabile: The Great One.

Mentre raccoglievano i cetrioli, di sicuro, Anton e Maria non avrebbero mai potuto immaginare nulla del genere.

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