Cade in un canyon e si taglia un braccio per uscire: la storia di Aaron Ralston

La vicenda ha successivamente ispirato il film "127 hours" di Danny Boyle: l'istinto di sopravvivenza portato al suo punto più estremo

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Nel ventre rosso e polveroso del Blue John Canyon, nel cuore dello Utah, un uomo si muove solo. Si chiama Aaron Ralston, ha 27 anni, è ingegnere, ma soprattutto flirta con l’assoluto. Cerca il silenzio delle rocce, l’essenzialità del deserto, la sfida con sé stesso. È uno di quei giovani americani che scambiano la wilderness per un santuario, e l’avventura per una missione personale. Il giorno è il 26 aprile del 2003 e lui non ha avvisato amici né parenti. Nessuno sa dov’è. Nessuno lo aspetta. Scende tra le pareti strette di una gola dove il sole non arriva mai, ma tutto sembra andare bene. Lungo il cammino incontra due escursioniste, parla amabilmente, si diverte.

Ma d'un tratto il destino si rovescia. Letteralmente. Ralston, affaticato, si appoggia per rifiatare ad una grossa roccia. Che però è instabile. Questione di secondi. Il gigantesco masso si stacca e lo trascina giù con sé, schiacciandogli il braccio destro contro la parete. Bloccato. Intrappolato. Immobilizzato tra il granito e il nulla. Il tempo, a quel punto, diventa feroce come un animale selvatico. Ralston ha con sé poca acqua, un po’ di cibo disidratato e un coltellino multiuso. Nessun telefono, nessuna possibilità di inviare un messaggio. Quello che succede nelle successive 127 ore non è solo un’odissea fisica: è una radiografia dell’animo umano, della paura, del delirio, e infine della volontà.

Ralston combatte come può. Prova a muovere il masso, tenta di scavare con la lama smussata del coltellino, ma è impossibile. Si filma. Parla alla videocamera come se fosse sua madre. Beve la propria urina. È solo, come pochi uomini sono mai stati. Non c’è nessuno che può trarlo in salvo, solo pietra e sabbia. Passano le ore e poi i giorni. Il braccio non lo sente più: è in necrosi. Il corpo comincia a cedere. La mente, invece, si accende. L’unica via d’uscita è quella che nessun essere umano vorrebbe anche solo immaginare: tagliarsi il braccio per sopravvivere.

E lo fa. Spezza le ossa con la forza del proprio peso, usando la parete come leva. Poi, recide muscoli, pelle e tendini con il suo coltellino. Un’ora di autodistruzione per restare vivo. Un gesto primitivo, chirurgico, disperato. Si fa un laccio emostatico con una sacca d’idratazione. E cammina. Cammina per chilometri, dissanguato, disidratato, mezzo morto. Incontra una famiglia in escursione. Lo guardano, non capiscono se è reale o un fantasma. Del resto in quel lasso di tempo - 127 ore in tutto - ha perso qualcosa come 18 kg. Chiamano aiuto. Un elicottero lo prende, lo salva, lo porta via dal deserto dove ha lasciato un pezzo di sé.

Ralston diventa un simbolo. L’uomo che sceglie di mutilarsi per salvarsi la vita. Un moderno Prometeo senza catene. Scrive un libro su quell'esistenza ripresa per i capelli. Va in televisione. Racconta. Rievoca. Viene celebrato e interrogato. Qualcuno lo chiama eroe. Altri, incosciente. La sua storia finisce sul grande schermo. 127 Hours, con James Franco, diretto da Danny Boyle. La scena dell’amputazione è così realistica da far svenire il pubblico nelle sale. Ma non è spettacolo: è la verità.

Oggi, Ralston continua a scalare. Usa una protesi. Parla nelle scuole, nelle aziende, ai giovani. Non predica. Racconta. Dice che l’amore per la vita non si capisce fino a quando non si rischia davvero di perderla. E che l’errore più grande non è stato cadere nel canyon, ma non aver detto a nessuno dove stava andando. L’avventura, se non incontra la responsabilità, diventa follia.

La sua storia spacca l’opinione pubblica. Perché non parla solo di coraggio, ma di limiti. Perché non è solo la parabola di un sopravvissuto, ma il referto clinico di un mondo che esalta l’individualismo fino a renderlo pericoloso. Ralston non è un superuomo. È un ragazzo che sbaglia, che si rompe, che sanguina, che urla. E che, nonostante tutto, risale. Letteralmente e simbolicamente.

Il suo braccio rimane là, incastrato sotto quel masso. Un pezzo di carne e osso che diventa monumento all’ostinazione. Il resto di lui cammina, parla, vive.

E racconta, a chi ha il coraggio di ascoltare, che in certi momenti la salvezza è una scelta. Crudele, irreversibile, eppure necessaria. In un mondo che corre senza dire dove va, il suo gesto resta una domanda inchiodata alla roccia: quanto siamo disposti a perdere, pur di non morire?

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