Cultura e Spettacoli

Altro che «Italietta», l’età di Giolitti fu d’oro

Un fantasma si aggira intorno alle celebrazioni del 150° dell’unità nazionale: il «Patriottismo costituzionale» e cioè la tesi secondo cui l’unico momento «pulito» della storia d’Italia, l’unico capitolo in cui gli italiani possano ritrovarsi per celebrare la propria unità e libertà, sia costituito dagli anni dei governi del Cln e dalla Carta Costituzionale redatta prima dello scontro del 18 aprile 1948. Prima vittima del «Patriottismo Costituzionale» è l’Italia liberale contro cui ci si scaglia individuandola come «tradimento» del Risorgimento e culla del fascismo. Ancora oggi si sostiene che nel 1945 non vi fu il ritorno della democrazia, ma il suo avvento per la prima volta: «Nascita e non rinascita - come amava sentenziare Luciano Violante quando era presidente della Camera nel 2001 - perché la democrazia intesa come pienezza di diritti e di doveri non c’era mai stata nella storia italiana». Questa svalutazione dell'Italia liberale era uno dei dogmi dell’antifascismo comunista e azionista sin dall’immediato dopoguerra contro cui insorgeva Benedetto Croce già nella Consulta del settembre 1945 rivendicando che «L’Italia, dal 1860 al 1922, è stata uno dei Paesi più democratici del mondo e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa della democrazia».
È auspicabile che le celebrazioni del 150° siano quindi l’occasione anche per una revisione storiografica che volti pagina rispetto alle liquidazioni sommarie di una lettura classista che è stata nei decenni del dopoguerra purtroppo dominante e in questo quadro di verifica e rivisitazione storica un contributo importante viene dalla pubblicazione di un immenso patrimonio di documenti finora inediti dedicati al principale protagonista dell’Italia liberale, Giovanni Giolitti. Grazie ad Aldo A. Mola, che è tra gli storici italiani che ha maggiormente ricostruito il volto dell’Italia monarchica e che si è avvalso della collaborazione di Aldo G. Ricci, sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato, sono stati editi in sei volumi i verbali dei Governi Giolitti (1892-1921), gli atti della relativa attività legislativa. La pubblicazione in questi giorni del secondo volume dedicato al Carteggio conclude il piano dell’Opera (AA.VV., Giovanni Giolitti. Al governo, in Parlamento, nel Carteggio, vol. III «Il Carteggio», tomo II 1906-1928, Bastogi editrice italiana, pagg. 1094, euro 40).
In particolare proprio gli scambi epistolari con esponenti politici, rappresentanti del mondo economico e dirigenti statali non solo evidenziano la centralità della figura di Giolitti nella dirigenza nella dirigenza politico-parlamentare tra il 1882 e il 1924, ma smentiscono i luoghi comuni sull’“Italietta” e “il ministro della malavita”. Abbiamo lo specchio del livello culturale e dello spirito nazionale con cui da un lato si è portata l’Italia unita a essere tra i protagonisti della scena internazionale e dall’altro si è andato costruendo l’apparato statale. Non è certo un “politicante” il Giolitti che dà istruzioni sulle operazioni nel Mar Rosso evitando che il conflitto con la Turchia appaia «una guerra di religione», una «seconda Lepanto». Così come è interessante vedere il ruolo assunto dai rapporti dei Prefetti e dei Questori a torto considerati architettura repressiva e che al contrario prefiguravano sondaggi e ricerche al fine di offrire la mappa degli squilibri territoriali e sociali su cui Giolitti si proponeva di intervenire. Positivista pragmatico vediamo in queste pagine come Giolitti avesse attenzione al rapporto con i socialisti riformisti di Turati e Treves e in particolare con Bissolati.
Altro aspetto di rilievo del Carteggio è come non solo Giolitti, ma nel complesso tutti i capi di governo e ministri si considerassero «uomini del Re» e quindi il ruolo fondamentale della Monarchia. Ma è proprio a questa luce che il Carteggio ci offre uno spaccato su come si consumerà la rottura finale tra il Re e la democrazia liberale dove il vulnus dell’aprire la strada alla dittatura di Mussolini ha il suo antecedente in quello della entrata in guerra nel 1915 nonostante la contrarietà di Camera e Senato e della stessa opinione pubblica a cominciare dal mondo cattolico con il Vaticano in prima fila. Un autentico «colpo di Stato» è definita la decisione del re di far partecipare l’Italia al conflitto. Se l’atteggiamento di Giolitti non fu all’inizio di avversione al governo di Mussolini ciò dipese dal suo scetticismo verso una immediata alternativa a causa della frammentazione causata dalla «maledetta proporzionale» e dalla incapacità di popolari e socialisti di formare una maggioranza.
Ma sarà proprio Giolitti l’unico a prendere la parola alla Camera per denunciare nel maggio 1928 come la nuova legge elettorale imperniata sul partito unico rappresentasse una violazione dello Statuto albertino mettendo sotto accusa, prima ancora di Mussolini, lo stesso re per aver così «tradito» l’Italia liberale.

La figura di Giolitti è la dimostrazione che al Novecento italiano non può essere applicata la formula di «secolo breve» coniata dalla storiografia marxista.

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