
Gentile Direttore Feltri,
l'assassino di una ragazza innocente si è suicidato in carcere e ora per questo sono indagate addirittura sette persone. Se quel mostro si è tolto di mezzo ha fatto spazio contro il sovraffollamento carcerario. È stata una sua scelta. E non è una grave perdita.
Sergio Celentano
Caro Sergio,
comprendo la rabbia che la vicenda ti suscita. Un uomo che ammazza una ragazza innocente scatena, giustamente, l'indignazione di qualunque cittadino dotato di un minimo di coscienza morale. Tuttavia, questa reazione emotiva non può trasformarsi nella celebrazione di un suicidio. Non perché il colpevole vada compatito per i suoi delitti, ma perché un detenuto che riesce a togliersi la vita tra le mura di un carcere non rappresenta una vittoria dello Stato, bensì una sua sconfitta.
Le prigioni non dovrebbero essere macelli in cui si lascia marcire e imputridire la carne umana fino a farla sparire. La funzione della pena, almeno secondo la nostra Costituzione, non è quella di punire fino a spegnere l'anima, ma di rieducare. Un concetto che oggi sembra desueto, eppure resta scritto nero su bianco. Il carcere dovrebbe essere un luogo in cui il reo, privato della libertà personale, viene aiutato a prendere coscienza del male che ha commesso, dell'impatto devastante delle sue azioni non soltanto sulla vittima diretta, ma su intere famiglie e, in senso più ampio, sulla collettività. L'obiettivo non è accarezzarlo, bensì stimolarlo a un riscatto spirituale, etico, morale.
Se un uomo si uccide in cella significa che quella cella non gli ha dato nemmeno una possibilità di risalire dal pozzo. Il suicidio è una fuga definitiva, la rinuncia a qualunque ipotesi di trasformazione. È la prova che il sistema penitenziario non è stato capace di proporgli un'alternativa.
Lei mi parla di fare spazio, come se la morte di un essere umano fosse un'operazione logistica, un modo per liberare letti e brande. Ma chi siamo noi per stabilire quando una vita vale e quando no? Forse Dio - ammesso che esista, e io sono agnostico - può arrogarsi questo diritto. Noi no. Altrimenti scivoliamo in una concezione primitiva della giustizia: quella del togliere di mezzo, dell'occhio per occhio travestito da buonsenso.
Quanto alla decisione di spostare quel ragazzo da una cella in alta sorveglianza a una condivisa con altri detenuti, non credo sia stato un gesto di negligenza deliberata o di malafede. Probabilmente l'intento era persino positivo: uscire dall'isolamento, condizione afflittiva che logora la psiche, e inserirlo in un contesto più socializzante, poteva aiutarlo a migliorare. Qualcosa, però, è andato storto. Forse è stata una valutazione prematura. Ed è per questo che ora si indaga: per capire dove si sia creato il cortocircuito e se vi siano state omissioni gravi.
Resta, però, il punto: festeggiare il suicidio di un detenuto, anche se colpevole di atrocità, significa abdicare al senso di umanità. Qui non c'è nulla da festeggiare.
Solo un bilancio di macerie: una giovane vita spezzata e, a distanza di pochi mesi, un'altra vita - quella del suo assassino - finita nel nulla. Due tragedie invece di una.E quando la giustizia produce più morte che redenzione, non è giustizia: è solo un fallimento.