da Roma
«Il nostro rapporto? Vaffanculo! Ti lascio!, dicevo io. Sì, ma a che ora ci vediamo domani?, ribatteva lui. Trentotto anni così», sorride con dolcezza, guardando l'albero di magnolia davanti al suo terrazzo sulla Dolce Cassia, dovè quiete e silenzio mentre Léontine Snel, la coreografa sessantaquattrenne che è stata compagna di vita (separata: ognuno a casa sua) di Dino Risi, si libera dai ricordi con unintensità tale da sentir freddo, alla fine del nostro incontro. La giornata è stata lunga e pesante, con tutte quelle persone di spettacolo in passerella alla Casa del cinema, tese a raccontare di sé più che del regista scomparso. «Manuel De Sica non la finiva più e in troppi si sono accaniti sul lato cinico del mio Dino: nel privato, era dolcissimo. L'ultimo signore rimasto. Del suo romanticismo intelligente mi accorsi il giorno in cui mi passò un braccio sulle spalle, dicendomi: Stai tranquilla, andrai bene. Eravamo sul set de Il tigre, nel 67 ed io, timidissima, facevo Miss Universo e dovevo scendere le scalette di un aereo, in pelliccia», racconta Léontine, che ha gli occhi di un blu insostenibile, perché febbricitanti di spiritualità urgente eppure inesprimibile. E proprio questo «fare anima» insieme al regista che sera stufato di campare e aveva smesso di mangiare e bere tre giorni prima d'andarsene, sabato mattina, in totale solitudine al Residence Aldrovandi, aveva reso indispensabile l'ex Blue Bell olandese al cineasta milanese noto per la sua cattiveria, il suo ateismo, la sua totale incapacità dandare oltre lempirico. «Di dolore me ne intendo. Mio padre morì che avevo tre anni e mia madre, un'indonesiana affascinante, ma fredda, mi collocò presso tre famiglie diverse. Dai tre ai dodici anni non seppi che significava famiglia. Quando ne ebbi quindici, mamma spedì una mia foto a Margareth Kelly, selezionatrice del corpo di ballo delle Blue Bell. Le campanelle azzurre, come quelle che crescono in montagna», spiega la Snel, che dallimprenditore Mario Caldonazzo ha avuto Nathalie, showgirl e ballerina e Patrizia, manager televisiva. «Dino era tuttaltro che freddo. A Parigi, nel 1980, comprò un coltello: voleva ammazzarmi e farla finita. Fu quando cominciò a farsi sentire la differenza d'età, quarantadue io, settanta lui e questo andare su e giù, dalla Cassia ai Parioli, per cenare insieme, discutendo su tutto, stava trasformandosi in una routine da pensionati», rivela l'artista, che dopo aver curato le coreografie di Tornatore (La leggenda del pianista sull'Oceano) ora è alle prese con i balli del 68, sul set di Michele Placido. «Il mio amore a prima vista con lattore Tony Lo Bianco, mentre con Dino fu un diesel a lenta carburazione gli fece perdere la testa. Dino non divorziò mai, né volle venire a vivere con me», racconta la ballerina, che insegna jazz dance e postura allo Ials, scuola di ballo per professionisti e casalinghe («per Dino il ballo era: gambe su, gambe giù e litigavamo su questo»). Nell'ampio salotto borghese, con i divani gialli pieni di cuscini all'orientale, i due cani di Léontine vanno e vengono graffiando il parquet, su uno spartano ripiano-libreria le foto delle figlie e dei nipotini rimandano a un'Arcadia familiare femminile. «Dino stravedeva per mio nipote Alessandro e viveva delle sue frasi. Nonno è in cielo, ho detto al bimbo stamattina. Allora vado su e spacco le nuvole!, mha risposto. Eppure, quando andammo a iscriverci insieme, per essere cremati, festeggiammo con lo champagne: il nostro rapporto con la morte pareva sereno Era stanco di vivere, Dino, dal giorno in cui, cadendo per terra, si spaccò la testa. Non sopportava lumiliazione, né lidea di dipendere da qualcuno. Lo faceva felice soltanto prendere il cappuccino con me e Alessandro, seduti sulla panchina davanti a scuola mia. Il giorno prima di morire, avevamo litigato sull'idea di Dio.
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