A.M. HOMES Non morire a Los Angeles

Scrisse il primo racconto in quarta elementare. Autrice cult e censurata, racconta l’«american dream» fuori dal rassicurante mondo alto borghese

«I am horribly american. Do you know what I mean?». E sorride, A.M. Homes, con quella faccia terribilmente americana, nel video autobiografico che ha girato l’anno scorso a New York con minimumfax. Terribilmente americana, con tutte le idee, gli eroi e la voglia di grandezza degli americani, sommamente descritti da lei stessa in un saggio per la rivista cult «Granta», Over there, How America sees the world, e quel vezzo primo su tutti: criticare gli americani, mettere una virgola e aggiungere che non esistono altri posti al mondo dove si possa vivere a parte New York. E terribilmente americano è il titolo del suo ultimo romanzo, in uscita in questi giorni per Feltrinelli in contemporanea mondiale: Questo libro ti salverà la vita (pagg. 311, euro 18) storia dell’epifania di Richard Novak, uomo d’affari losangelino da alcuni milioni di dollari, con Rothko e De Kooning in salotto.
Richard Novak è l’uomo più solo al mondo, ha legami solo con persone che paga, ha capacità sensoriali azzerate, ha perso il filo della propria esistenza e di quella degli unici esseri un tempo amati: la ex moglie, cui deve una vita votata all’imperativo categorico di far prima soldi a palate e poi soldi dai soldi, e il figlio Ben. Poi un giorno - ed è l’incipit del libro (dinamico e travolgente come il primo episodio di ER) - Novak recupera tutto: odori, colori, musica e un brivido di dubbio per quel bagliore arancione in lontananza: l’alba di L.A. o un inestinguibile incendio? Il giorno prima Novak scendeva da Shadow Hill e percorreva il Sunset Boulevard su un’ambulanza a tutta velocità: sembrava proprio gli fosse venuto un colpo. L’espressione generica è voluta, perché insomma a parte un grande dolore diffuso ovunque, «uno strappo, un’esplosione violenta, una morte lenta e straziante», Novak non aveva altri sintomi.
Il grande dolore e quel che ne consegue è il segno della rinascita, la seconda possibilità, l’illuminazione. Chiamatela come volete, basta che sia chiaro che è quello che secondo A.M. Homes deve accadere, prima o poi, a ciascuno di noi, pena la vera morte interiore. E gli incontri e le rocambolesche avventure cui Novak viene sottoposto dalla Homes per riscoprire il suo karma sono terribilmente americani, a metà tra quelli imposti al Michael Douglas di The Game e le follie dell'After Hours di Martin Scorsese. Recupero del contatto umano grazie ad Anhil, saggio immigrato gestore del negozio di ciambelle sul Sunset, e a Cynthia, casalinga disperata che Richard scova in un mare di lacrime tra lattuga e pomodori al supermarket. Recupero della sensorialità, del gusto del rischio e del concetto primordiale di casa, grazie ad un rapimento sventato, un cavallo salvato in extremis e una dolina che avanza in giardino, mentre il terreno sprofonda e Los Angeles brucia.
Immaginare che ci sia un modo di esistere e un mondo da vivere di cui qualcuno non ha voluto passarci le istruzioni, che ci sia un aldiqua di cui non siamo coscienti, è il bivio su cui si gioca l’universo narrativo di A.M. Homes: «Non scrivo niente se prima non l’ho visto con il mio occhio interiore». E con l’occhio della mente la Homes immagina tutte le vite che non le appartengono, con quella voglia di indagine sul borderline e di sfida al possibile che di solito ama lanciare chi ha avuto un’infanzia felice e una famiglia normale: del fatto che i suoi genitori non sono divorziati, che andava d’accordo con suo fratello, che viene da un contesto alto borghese e l’unico motivo per cui ora trascura la sua, di famiglia, sono i reading o i momenti di solitudine creativa, parla quasi con vergogna. «La mia scrittura riguarda l’esperienza emotiva estrema ritratta in Kodakolor, fotografica per intensità e colore. Mai la mia esperienza personale. Questo non fa per me».
Quello che fa per lei, dice, «è farmi il culo» - alle sei e mezza del mattino scrive già e non smette fino alle due - «Nella maggior parte della letteratura femminile che conosco non c’è il mio rigore. Voglio scrivere qualcosa che resti nella mente delle persone». Terribilmente americana: self-help e self-made in un dolce milk shake, A.M. Homes vuole salvarci la vita.
D’altra parte le idee chiare le ha avute sin da piccola: è stata bambina prodigio in un settore ancora vergine da questo punto di vista, le riunioni antinucleari; ha scritto la sua prima storia in quarta elementare: la «magnifica avventura» di una bambina che prendeva l’LSD; spediva lettere alle persone famose per raccontar loro che cosa aveva fatto quel giorno a scuola e se era andata dal dottore; ha scoperto la colonia artistica di Yaddo a diciotto anni e non l’ha più mollata e a diciannove, per una questione di diritti d’autore, su una sua commedia già si scomodavano gli avvocati di Salinger. Cose così, per mettersi alla prova e costruire il suo american dream fuori dal rassicurante mondo alto borghese.
Fantascienza emotiva hanno definito l’intensa oscurità della sua scrittura contrapposta alla normalità osservabile della sua vita. Emotivamente estrema lo è stata con Jack, il romanzo d’esordio, in cui un teenager accoglie la confessione del padre di essere gay. Estrema nelle raccolte di racconti, pieni di ossessioni, malattie, mostri. Ed estrema tanto da esserne censurata in La fine di Alice, il romanzo-caso con cui entrò nella mente di un pedofilo, una storia ricolma di sesso, per la quale i fan annunciarono un «Nabokov in gonnella», e i detrattori un attacco di «vomito raggelato».
Ora che è cresciuta, la Homes è interessata allo straniamento provocato da una cultura che gira intorno ai soldi, la frustrazione e l’insoddisfazione stimolate da eccessi e avidità, senza perdere mai la sua terribile americanità. Incendi, Diet coke e valium, rilevati come termini e immagini ricorrenti della sua narrativa, non mancano in Questo libro ti salverà la vita. Apocalisse e calorie. Infinito e quotidiano. La grandezza di A.M.

Homes si misura sull’evento che irrompe nel routinario e il suo paradosso narrativo vuole che l’evento sia sano e il routinario malato. È quando arriva la vera tragedia, insomma, che la gente smette di prendere il valium.

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