«Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino», diceva il veterano di Life Robert Capa. Tuttavia, corrispondenti di guerra e reporter di tutto il mondo sanno che c'è sempre un momento, se riesci ad essere abbastanza vicino ad un evento tragico, in cui non riesci a guardare la Storia in terza persona e ti chiedi se c'è qualcosa che potresti fare per cambiarla. Se lo è chiesto anche lo scrittore e giornalista anglo-indiano Amitav Ghosh - autore tra l'altro de Il cromosoma Calcutta e Il paese delle maree - quando ha raccolto in volume le sue ultime corrispondenze dai Paesi più tormentati del globo, dalla Cambogia post-Pol Pot alle coste asiatiche sconvolte dello tsunami alla New York del 9/11, volume ora tradotto da Neri Pozza con il titolo Circostanze incendiarie (368 pagine, euro 17): «Volevo che i miei saggi e gli scritti occasionali degli ultimi vent'anni fossero accessibili a un pubblico molto vasto», ci ha detto Ghosh. «Perché rileggendoli mi sono stupito di quanto fossero profetici a proposito dell'emergenza continua cui ci costringe questo presente colmo di rabbia».
Osservare gli eventi da vicino le ha dato qualche preveggenza sul destino del mondo in questi ultimi vent'anni?
«La prima volta che mi recai in Egitto, nel 1980, avevo ventitré anni. Il villaggio in cui mi stabilii si trovava all'estremo nord ovest del delta del Nilo, a circa sessanta miglia da Alessandria: Nashawy è il nome che gli ho dato nei miei ultimi scritti sull'Egitto. Nashawy mi ha educato su tante cose diverse, ma più di tutto mi ha educato come scrittore. Là compresi che il movimento del tempo si può sentire con maggiore forza nei luoghi che appaiono lontani dalle principali correnti della storia».
Che cosa unisce i differenti saggi di Circostanze incendiarie?
«Molti di questi saggi sono stati dettati da crisi politiche o urgenze sociali, come quello sulla situazione nucleare in India e Pakistan nel 1998, altri sono caratterizzati da una corrente emotiva particolare, come il reportage dalle isole Andaman e Nicobar in cui mi sono recato qualche giorno dopo lo tsunami: una devastazione che non avevo mai visto, in nessun altro luogo. Non sono un diario di viaggio, ma una raccolta di meditazioni su luoghi differenti del pianeta».
La paura del fondamentalismo attraversa molte delle esperienze del libro. C'è qualcosa che avrebbe potuto essere previsto?
«Molti estremisti religiosi all'inizio sono stati incoraggiati dai governanti secolari, nella speranza di guadagnarne voti. Ma io non credo che il fondamentalismo avrebbe avuto tutto il peso attuale nei Paesi arabi se non fosse stato per alcuni fattori economici determinanti. Come cercai di dire nel racconto Un egiziano a Baghdad, gli anni Ottanta sono stati un periodo di grandi speranze per la popolazione di Nashawy. In quegli anni, il fervore religioso era davvero modesto. Molti dei giovani del villaggio avevano trovato lavoro nei ricchi Paesi petroliferi del Medio Oriente e spedivano a casa grandi somme di denaro. Anche le abitazioni più misere si dotarono di lavatrici e frigoriferi. Fu la Prima Guerra del Golfo a porre fine a tutto questo: per Nashawy, e i milioni di altri egiziani che lavoravano nel Golfo, questo conflitto e i successivi furono una catastrofe. La lezione che gli sceicchi del petrolio appresero fu che in tempo di crisi lavoratori provenienti da altri Paesi arabi rappresentavano una minaccia politica.
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