La singolarità della trattativa che Sergio Marchionne sta conducendo per l’alleanza con Chrysler si può sintetizzare nel nome di una città: Washington. La grande operazione di salvataggio di una delle tre grandi industrie automobilistiche americane non si gioca negli uffici ovattati di New York di una qualche banca d’affari o si uno studio legale. Ma nella capitale della politica. Forse è questo il segno più evidente di un mondo che è cambiato. La liberista America assiste ad uno straordinario passaggio di poteri: dal mercato, dagli affari, dai quattrini alla politica. Le stanze sono quelle dei lobbisti, dei senatori locali, dei potenti sindacati automobilistici. In questa chiave si debbono dunque leggere i passaggi fondamentali della trattativa. Sembra di assistere ad un caso Alitalia in salsa americana.
Il primo passaggio sostanziale è stato quello di avere il consenso dei sindacati. Qualcosa che ci ricorda le lunghe trattative di Fiumicino. I lavoratori dell’auto hanno accettato di rimetterci circa 450 milioni di dollari in paghe e benefit. E dunque il primo ostacolo è stato superato. Il tesoro americano ha, da parte sua, già pompato nella «sostanzialmente fallita» Chrysler 4,5 miliardi di dollari e altrettanti è disposta a mettere se l’accordo con Torino dovesse andare in porto.
Resta un terzo scoglio. Sono le banche creditrici della casa automobilistica di Detroit. Una pattuglia di ex regine: Jp Morgan Chase, Citigroup, Goldman Sachs e Morgan Stanley che insieme debbono riscuotere assegni per più di 4,5 miliardi di dollari di crediti concessi nel passato. Istituti che si sono detti disponibili a ridurre le proprie pretese in cambio di una quota della nuova alleanza. In queste ore si tratta sull’entità del sacrificio che debbono fare. Marchionne ha un grande alleato: il Tesoro americano. Vuole che si concluda favorevolmente la storia e nei confronti di Wall Street ha un bel numero di armi.
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