Ancelotti «new age» inventa Chelsea Lab e cerca Pirlo e Seedorf

nostro inviato a Turi (Bari)

Tenero è il distacco di Carlo Ancelotti dal Milan e dalla sua terra. Lunedì, a riflettori spenti, il viaggio verso Schiavonea, la patria di Gattuso, sette ore sotto la pioggia, incollato al volante e al telefono. «Per rispondere a messaggi e chiamate di improbabili procuratori capaci di raccomandare gente che ha smesso da due anni di giocare al calcio», il racconto divertito agli amici di Calabria, prima di finire, nel cuore della notte, dopo il matrimonio di Sasà, cugino di Rino, a cantare «su di noi, nemmeno una nuvola». Ancora più tenero il colloquio, ieri mattina, col presidente Silvio Berlusconi. «Ho chiamato Michele (Persichini, il cuoco del Cavaliere, ndr) e sono riuscito a parlargli, è stata una chiacchierata molto intima e affettuosa», il resoconto esibito all'ora di pranzo, a Turi, alle pendici delle Murge, la patria di Oronzo Pugliese - e delle ciliegie «ferrovia» -, allenatore mitico e leggendario degli anni ’60 e ’70, finito anche in un film di Lino Banfi. Qui Ancelotti è spuntato sul far della sera per ritirare un premio trasformato in occasione solenne per tributargli il saluto del calcio italiano. Lo salutano con indosso la maglia rossonera, lo accarezzano e lo fotografano come una star, pedinato da giornalisti inglesi a caccia di chissà quali indiscrezioni. «Resterò un tifoso del Milan» è la sua promessa prima di andare in piazza a ricevere la targa.
Tenero è l'approccio con il Chelsea e Londra. Mentre è a tavola, ospite della masseria «Menelao», una piccola oasi di verde e di ospitalità raffinata, si ritira per parlare fitto fitto con David Beckham: lo chiama per assolvere una missione diplomatica, passargli il capitano del Chelsea John Terry. «Benvenuto mister, sarà un piacere lavorare con lei, David mi ha raccontato molte cose belle» la frase del capitano dei Blues che scivolò sul dischetto del rigore nella finale Champions di Mosca. Non ha molta fretta di partire Ancelotti, anche se il piano è pronto, nei dettagli, pianificato nei colloqui con Arnesen, il danese salito nella scala gerarchica al posto di Peter Kenyon: la casa da scegliere alla periferia di Londra, nei pressi del centro di allenamento, il corso accelerato d'inglese da svolgere in Olanda, la scorta della figlia Katia che lavora a Chelsea-tv, e il suo staff ancora da completare (ne fanno parte, oltre a Wilkins, al preparatore dei portieri, Luigi La Sala, osservatore e de Michelis, lo psicologo incaricato di duplicare il modello di Milan Lab). Manca all'appello un assistente, italiano. Buio pesto su squadra e calcio-mercato. «Adebayor? Mi piace. Alex? Mi è sempre piaciuto. Seedorf e Pirlo? Devo ancora parlare col Chelsea» risponde a monosillabi. A Londra scrivono di Pato e sono fuori pista. Ma se alcuni tabloid lo hanno salutato definendolo «Yes man» di Abramovich, Steven Gerrard, capitano del Liverpool, gli ha fatto l’inchino: «Ottima scelta del Chelsea, è uno dei migliori allenatori del mondo, credo si adatterà al calcio inglese».
Tenero è il debutto di Carlo Ancelotti da scrittore, raccontato col candore di un bimbo. «Il mio libro è terzo in classifica» confessa orgoglioso di quel tomo Preferisco la coppa divertente da cima a fondo. Continuano ad arrivargli congratulazioni e anche l'eco di qualche lamento. Tipo Inzaghi, uno molto permaloso, che non ha gradito la descrizione del famoso gol di Monaco, contro il Bayern: «Mirò a destra, la palla finì a sinistra». «A me Pippo non ha detto niente» obietta Carletto che può solo ammettere d'aver censurato, nel suo libro, un episodio, il rifiuto generoso di Aldo Serena di entrare in campo al suo posto nella partita di fine carriera rossonera, a San Siro. Da qui deriva quel rapporto con Capello non proprio affettuoso. A Londra lavoreranno gomito a gomito. «Magari andrete a pranzo...» gli chiedono. «Beh, proprio a pranzo no» risponde di getto.
Al Chelsea occuperà la stanza che fu di Mourinho, destinatario di qualche puntura nel libro. «Certo che lui e Mendez sono due mostri di bravura nello strappare aumenti di contratti» osserva senza invidia. Da calciatore scoprì un giorno a Milanello che Gambaro, appena arrivato dal Parma, guadagnava più di lui. «Capii allora che non ero fatto per negoziare» confessa.

«Galliani invece sì, è di una bravura incredibile quando si siede al tavolo. Fosse stato lui al posto del manager del City, Kakà a gennaio sarebbe finito in Inghilterra» chiosa. Forse è l'ultima notizia sul Milan passata prima di volare a Londra.

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