Anche per la diossina si urlò al disastro senza basi scientifiche

Caro Granzotto, ho letto la lettera del professor Battaglia circa l’allarmismo che gli «esperti» diffondono, ulteriormente ingrandito dai media, sulle emissioni nucleari delle centrali giapponesi. L’attuale situazione mi ricorda quanto fu detto e scritto per la diossina al momento dello scoppio di Seveso. Terreno cintato per anni, previsti aborti, malformazioni nei nascituri, tumori... Mi sembra che tutto si sia risolto con alcuni casi di cloracne. Eppure ancor oggi, di tanto in tanto, si lancia l’allarme per la presenza, in alcuni alimenti, di diossina, tossica, ma non si specifica mai in quale dose può diventare pericolosa per l’uomo. Non crede che sarebbe più prudente venissero valutate anche le conseguenze che certe notizie possono provocare?
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Vecchia storia, caro Ruffini. Trentacinque anni fa, quando saltò la valvola di un impianto dell’Icmesa provocando la fuoriuscita di diossina, il Giornale era stato da poco fondato. Come tutti gli altri quotidiani fummo alluvionati da agenzie di stampa, inizialmente generiche, approssimative e quindi via via più allarmiste. Allora non era in voga il termine «emergenza» che oggi invece irrompe in ogni occasione critica, dalla «emergenza pizze» per la mozzarella blu, alla «emergenza tsunami». «Pericolo» fu la parola che con maggiore insistenza compariva: pericolo diossina. Nome che non diceva niente, figuriamoci poi nella sua formula scientifica - tetraclorodibenzo-p-diossina - all’opinione pubblica, ma che divenne tristemente familiare quando si seppe, e lo si seppe subito, che era un letale agente cancerogeno. Da quel momento, nelle cronache i fatti lasciarono il posto agli scenari immaginabili (eppur dati per certi), alla nube di diossina che avrebbe coperto la Brianza, se bastava, seminando morte immediata e un futuro di persone malate di cancro, di neonati malformati, di paesi e cittadine abbandonate per sempre, di migliaia e migliaia di ettari che sarebbero restati contaminati per più di qualche secolo. Se Montanelli non ne fosse stato allergico, probabilmente ci saremmo accodati anche noi alla corrente catastrofista: non che Indro rifiutasse di prendere in considerazione la versione più nefasta dell’incidente di Seveso, volle solo vederci chiaro. Così diede incarico al redattore scientifico Giancarlo Masini di sfoderare le sue competenze per definire portata e limiti degli effetti della diossina, confrontarli con i dati certi di Seveso e trarre le conclusioni. Che furono: la diossina è certo un potente agente cancerogeno, ma quantità e concentrazione di quella fuoriuscita nell’incidente dell’Icmesa non autorizzavano congetture su decessi immediati e implicazioni future sulla salute della popolazione. Ovviamente Il Giornale non scrisse «non è successo niente», perché così non era (basti pensare ai moltissimi casi, qualcuno anche grave, di cloracne, una dermatosi piuttosto tenace; alle montagne di animali abbattuti, allo sgombero della zona maggiormente colpita dalla nube): disse, in pratica, andiamoci piano con l’allarmismo e il catastrofismo, andiamoci piano col prefigurare falcidie e tremende eredità genetiche. I fatti poi ci diedero ragione (non ci fu un morto e a distanza di tanti anni l’incidenza dei tumori nell’area coperta dalla nube di diossina non è variata dalla media. Sulla voragine dove furono stipate centinaia e centinaia di tonnellate di terreno, mattoni e cemento contaminato non che tutta l’attrezzatura e le macchine usate per la bonifica, sorge ora e aperto al pubblico il parco naturale Bosco delle Querce), i fatti ci diedero ragione, dicevo, ma fu come predicare nel deserto. Cavalcata la tigre dell’allarmismo nessuno volle scendervi. Evidentemente dovevano trovarsi a loro agio perché sono rimasti sempre lì, in sella.

In attesa che la tigre riprendesse a ruggire, anche se per eccitarsi ai catastrofisti va bene, e lo abbiamo visto spesso, un semplice miagolio. E a ogni miao segue subito il grido d’allarme: «Emergenza!».
Paolo Granzotto

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