In fondo se Mogol è il re degli autori italiani il merito è (anche) di quell’entusiasmo magnetico che trasmette seduta stante, qualsiasi sia il suo progetto. Ha lanciato il «Premio Mogol - Le parole più belle» in scena il tre giugno ad Aosta (su Raiuno due giorni dopo) e ne parla con un impeto commovente. C’è da credergli: premia, insieme con una signora giuria composta da Dori Ghezzi, dall’autorevolissimo Gino Castaldo di Repubblica e dall’intramontabile Dario Salvatori, le canzoni che aiutano la cultura popolare a crescere. E non è un’idea da poco specialmente ora, con una quantità enorme di musica che si spalma sulla vita di tutti i giorni senza incidere neanche un po’. E allora ecco quanto si infervora lui che con le sue parole ha spiegato e colorato un’epoca, la nostra: «Il valore di un’opera musicale è oggettivo, non soggettivo».
D’accordo, Mogol, ma talvolta una canzone si ascolta per semplice godimento.
«È vero, il piacere di un brano è complessivo. Ma i grandi brani sono formativi. E le parole di una canzone contribuiscono moltissimo all’evoluzione e alla crescita delle persone».
Non sempre si raggiunge il risultato.
«Il marketing rovina tutto. La logica del profitto è sempre stata un grande ostacolo alla qualità e alla modernità».
Dice che i giovani cantanti sono poco moderni?
«Molti cantano come se Bob Dylan non fosse mai nato. Invece il suo più grande valore è stato quello di cambiare il modo della comunicazione. Con lui si è passati dal semplice canto alla trasmissione di idee, sentimenti, convinzioni».
Anche per questo è nato il suo Premio Mogol?
«Il nostro obiettivo è incentivare la libertà di espressione, pensando che il testo di un brano, se è bello, è un autentico nutrimento per l’anima».
I cinque testi finalisti sono «L’ultimo valzer» di Simone Cristicchi, «È lei» di Edorado Bennato», «Mandaci una cartolina» di Carmen Consoli, «’U cantu» di Franco Battiato e «Pace» di Arisa.
«In quella canzone Battiato canta pochissime parole: ma sono quelle fondamentali. E il mio non è un discorso solo estetico, ma proprio di contenuti. Anche Cristicchi e Bennato sono scrittori eccezionali. Il brano della Consoli è commovente. E Arisa canta versi di altissimo livello».
Sono stati scritti da un autore, Giuseppe Anastasi, che insegna al Cet fondato da lei ed è uno dei giovani più bravi in circolazione.
«È un grandissimo. E non aggiungo altro».
Cesare Cremonini l’altro giorno ha detto che la sorte dei nuovi cantanti dipenderà dalla qualità del linguaggio scelto e dalla capacità di farsi capire dal pubblico.
«È sempre stato così. Per quanto mi riguarda, la mia fortuna è stata la semplicità. Io ho sempre usato un lessico quotidiano anche per rappresentare i sentimenti più complessi».
Spesso è arrivato alla poesia pura.
«Ho appena scritto le liriche per la Capinera, un’opera di Gianni Bella e del librettista Giuseppe Fulcheri tratta dal Verga. Stiamo cercando i fondi per metterla in scena. E ho pronto un brano, Rinascimento, che è favoloso».
Però la sua, caro Mogol, è un’opera rimasta per lo più dentro i confini italiani.
«Questo è stato un grave limite. Pensi che - credo stessimo registrando Una giornata uggiosa, fine anni Settanta - un giorno Lucio mi ha detto: “Il management americano dei Beatles vuole lanciarmi in tutto il mondo”».
E lei cosa gli ha risposto?
«“Se rifiuti quest’offerta mi arrabbio”. Ricordo di avergli detto: “Per convincerti, mi metterò anche in ginocchio davanti a te”. Ma rifiutò. Probabilmente era mal consigliato».
Da chi?
«Provi a dire».
Dalla moglie?
«Anche lei era d’accordo con l’idea di Lucio».
Mogol, per lei sarà un grande rimpianto.
«Quel no è stato senza dubbio una decisione fondamentale nella nostra storia. Ma lo sa che Paul McCartney a casa sua ha tutta la discografia di Lucio Battisti? A un giornalista italo americano ha chiesto di tradurre qualche mio verso.
Che soddisfazione?
«Enorme. Ma non credo che potremmo mai collaborare, io non ho tanta confidenza con l’inglese, sa?».
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