Cafonal. Quel mattacchione di Roberto D’Agostino, alias Dagospia, ha capito tutto. È bastato un marchio, un’etichetta, tre sillabe sulla barba di Scalfari per chiudere l’equazione. I vecchi dotti e i nuovi ricchi sono speculari. Si guardano allo specchio e non si riconoscono. Ma sono uguali. Si assomigliano. Le messe cantate sono come il Billionaire. Anzi, peggio. Occhiali, gioielli, dentiere, tailleur, rughe asfaltate, pioggia, quei volti da vecchia aristocrazia intellettuale che guarda il mondo con il disprezzo degli ultimi moderni, facce tinte, sorrisi da «anche lei legge Scalfari», parole annoiate, blasonate, da Novecento in naftalina che sa di muffa e malattia, la voglia di stare lì, sulla poltrona, fare ciao ciao con la manina, annuire all’ultima arguzia filosofica dell’uomo che parla con Dio, sospirare ai giorni andati, tutti in via Veneto il sabato sera, raccontare pettegolezzi sconci sull’amante giovane del cattedratico in pensione, o su quanto sono belli gli amori immaturi di qualche politologo. E la vecchia Nikon di Umberto Pizzi che gli ruba l’anima come fossero le veline del circo di Briatore o la ciurma di tronisti di Lele Mora. Sbadiglio. Clic. Salamelecco. Clic. Battuta finto intelligente. Clic. Autografo con dedica immortale. Clic. Abbuffata. Clic. Occhio volterriano dentro la scollatura. Clic. Eugenio ho un libro nel cassetto. Clic. Dove sta la differenza? La fiera delle vanità gira sempre allo stesso modo. Ego, potere e raccomandazioni. Dite che le domande dei billionaire intellettuali sono più intelligenti? Tutta facciata.
Cambiano solo i congiuntivi. Quelli ci mettono le carte di credito, questi un apoti prezzoliniano o un barocchismo di Bartolomeo Mastri. Il fine è la meraviglia. Stupeficium, come il più dozzinale incantesimo di Harry Potter. Schiantare il prossimo. Tutti vestiti a festa per il gran ballo dell’aristocrazia, che poi sia denari, coppe, spade o bastoni cosa cambia. Sempre cafonal è. Quello che salva Briatore è che lui partecipa alla fiera solo per vendere lustrini e champagne. Guarda, conta i soldi e ride. Non spaccia santini e sermoni.
C’erano tutti l’altra sera alla Residenza Ripetta, dove Roma celebra la mondanità dei venerati maestri. Scalfari mostra ai fedeli Per l’alto mare aperto, Asor Rosa gli fa da chierico, la falange macedone degli amici di Eugenio occupa la navata centrale: Giorgio Ruffolo, Ettore Scola, Andrea Manzella, Fabiano Fabiani, Nello Ajello, Lucio Villari, Giovanni Valentini. Veltroni è qualche passo più in là, poi la corte, il clero e il terzo stato. Fuori dalla porta i senza casta e i lettori della domenica.
Scalfari è qui e aspetta i barbari. È la sua ultima illuminazione, quella che ha rubato a Baricco. Il suo ruolo finale. Sta lì come un monumento a testimoniare la nobiltà dell’ultima generazione moderna. Quelli che arrivano dopo sono solo post. Barbari, appunto. I mutanti di una nuova era. Tutta gente che non ha voglia, forza e coraggio di capire. I senza memoria. «Tutti quelli che parlano un nuovo linguaggio, quello dei telefonini. Il linguaggio di chi vuole vivere solo al presente, di chi sa tutto dei gruppi musicali di oggi, conosce perfettamente il nome degli stilisti di moda, sa citare le formazioni delle squadre di calcio che hanno solo giocatori stranieri ma non ricorda un solo campione della nazionale italiana che vinse nel '38. I nuovi barbari non vogliono sapere chi era Ferruccio Parri ma nemmeno Giannini il qualunquista». Quelli che non dialogano più con il passato, quelli che hanno azzerato i valori. Quelli che di un’altra specie. «Mettiamo che dopo la scomparsa del genere umano l'altra specie più pronta a recepire il comando siano i topi o certe specie di formiche. Questi saranno i barbari di domani». Solo pochi si salveranno: «Mio nipote ha solo 9 anni ma sta crescendo in un ambiente in cui ci sono libri, oggetti, persone che riusciranno a trasmettergli cultura negli anni a venire». E non fa nulla se i barbari li sorprenderanno, riesumando via Google Meazza, Piola e Colaussi. La legge di Scalfari è già scritta: dopo di lui (e i suoi eredi) il diluvio.
Ecco lo specchio.
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