È ancora l’«ismo» più a portata di mano nel magazzino delle utopie

Mi pare del tutto logico che la grave crisi economica dalla quale il mondo è travagliato abbia ridato fiato alle trombe d’una sinistra tuttora variamente ancorata all’ideologia comunista. Si crede, e si vuol far credere, che finalmente le profezie del Capitale abbiano riscontro concreto negli avvenimenti. Per comodità di tesi vengono dimenticate le macerie e le efferatezze di quel «socialismo reale» che proclamava la sua fede nel verbo di Marx, e la palese insensatezza di alcuni dogmi su cui il verbo si reggeva. Tutto questo è spiegato molto bene in questa stessa pagina dall’articolo di Giampietro Berti.

Io preferisco invece esaminare, alla buona, un altro aspetto della questione. Dato per certo - e credo che lo sia - il revival del marxismo, dobbiamo attribuirlo principalmente alla crisi finanziaria, o piuttosto ci conviene ricorrere anche ad altre spiegazioni? Secondo me c’è molto altro. Penso che oggi come oggi nessuno, nemmeno Luciano Canfora, consideri seriamente riproponibili in sede politica e in sede economica le teorie del filosofo di Treviri. Che era, intendiamoci, un genio. Così come lo era Platone: sulla cui Repubblica è giusto meditare, ma sapendola ormai confinata nell’immenso magazzino delle utopie. Tra la società di cui ragionava Marx e la società nostra corre - per le strutture sociali, per i rapporti tra le classi, per le istituzioni - una distanza non molto minore di quella che separava Marx da Platone.

Marx è un affascinante soggetto e oggetto di studio. Ha generato uno degli «ismi» dominanti della storia contemporanea. «Ismi» contrapposti, ma che insieme vanno forte sia nella ricerca storiografica, sia in libreria, sia sulla stampa quotidiana. Fascismo, nazismo, comunismo, fucine di bestseller. Perché? Perché rimandano il pensiero e la memoria non a semplici concezioni astratte, ma a eventi tumultuosi e sanguinosi, a immani illusioni e immani sofferenze, a facce ben identificate di capipopolo e all’occorrenza di carnefici. I baffoni di Stalin, i baffetti di Hitler, la calvizie mascelluta di Mussolini, e se volete anche il barbone profetico di Karl Marx. Questi «ismi» ruggenti ebbero dei precursori, ebbero dei padri, ebbero smisurati obiettivi. La falce della storia si è abbattuta su di loro. Ha reciso per fortuna la loro vitalità operativa, non interamente invece la suggestione favolistica che continuano a esercitare.

Questi «ismi» che furoreggiarono e che non hanno più potere, esercitano ancora il fascino ambiguo delle speranze irrealizzabili, dei sogni ammalianti. Il che accade con particolare intensità quando le cose per la maggior parte della gente vanno male, e si cerca un appiglio consolatorio alla Wanna Marchi. Altri «ismi», come il riformismo o il liberismo, non offrono nulla di tutto questo, anche se approdati a ottimi risultati sociali. Gli scaffali non cedono sotto il peso di volumi riguardanti l’Olanda o il Canada o la Svezia (tra gli svedesi spicca Olof Palme, essendo stato assassinato). Secondo un vecchio adagio sono beati i popoli che non hanno storia, ma in questo nostro tempo d’immagini e di televisione quei popoli - e le ideologie tranquille alle quali sono affezionati - rischiano l’anonimato.

Volete mettere Marx? Volete mettere la storia terribile del comunismo e del nazismo, o la storia tragicomica del fascismo? I fasci littori e le croci uncinate popolano instancabilmente i teleschermi, le bandiere rosse popolano i teleschermi ma non infrequentemente, nonostante tutto, anche le piazze. Sì, Marx è sempre di moda.

Gli aneliti dei rivoluzionari da salotto, immancabili agli appuntamenti dell’happy hour, oscillano tra il barbone di Marx e la barbetta del «Che» Guevara. Però tutti sanno, perfino Minà il castrista, che è roba d’archivio. Materiale buono per gli amarcord. La vita vera è altrove.

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