Angelino, il primo della classe che ha bruciato tutte le tappe

Poiché in Angelino Alfano i pregi superano i difetti, togliamoci subito il rospo. Sembra un paradosso che il movimento berlusconiano volendo darsi per la prima volta un segretario unico, ossia un vero capo partito tradizionale, scelga chi, in un incarico analogo, ha fallito.
La brutta esperienza risale a qualche anno fa, quando già Angelino era considerato un fenomeno. Nel 2005 fu nominato, infatti, coordinatore di Forza Italia in Sicilia, ricevendo le consegne da Gianfranco Micciché, fondatore del partito siciliano. Sotto la guida di Micciché, Fi - appena in fasce - ebbe un successo mirabile. Alle elezioni politiche del 2001, conquistò tutti i seggi in palio nell’isola, dando scacco matto ai concorrenti di destra e sinistra: 61 parlamentari per Fi, contro zero degli altri. Dopo il trionfo, Micciché tenne ancora per qualche tempo le redini del partito, facendo del giovane Angelino il proprio braccio destro. Finché, volendo occuparsi d’altro, cedette l’incarico al fido Alfano che nel frattempo era anche entrato nelle grazie del Cav.
Passata in nuove mani, Fi siciliana cominciò però a deperire. Angelino era distratto dalla carriera romana che iniziava a volare e che lo portò nel 2008 al ministero della Giustizia. A Palermo intanto si moltiplicavano liti e dissensi, fino alla duplice scissione di Micciché e di Raffaele Lombardo. Così il partito, da dominatore della scena, divenne minoritario e fu costretto all’opposizione. Angelino assistette da Roma allo sfacelo senza trovare l’energia di imporre un suo delfino.
Questo l’antefatto che getta un’ombra sulla nomina di ieri, tanto più prestigiosa e impegnativa dell’altra. Di fronte al precedente, si possono avere due atteggiamenti. O si pensa che Angelino abbia già dato prova di non sapere dirigere una baracca complicata come un partito e allora ci si fascia la testa fin d’ora. Oppure si trae un auspicio positivo proprio dal fiasco, dicendo che il giovanotto avrà fatto tesoro degli errori passati e che sarà perciò un segretario con i fiocchi. I trascorsi di Alfano fanno propendere per questa festosa ipotesi.
Appena quarantenne, Angelino è stato precoce e speciale in tutto. È probabilmente il primo essere al mondo che ha Angelino come nome vero e non per diminutivo. Ce l’ha per distinguersi dal padre che si chiamava Angelo. È agrigentino come Pirandello, ma anziché essere arzigogolato e pessimista come lui, è sereno e soddisfatto. «Io - dice di sé - sono un uomo fortunato. Non capita a tutti di potere fare quello che si desidera da bambino». È questa la ragione principale per cui è amato dal Cav che, con la decisione di ieri, lo ha designato successore al trono. «Angelino - è solito dire il Berlusca - mi piace perché è un ottimista, sempre pieno di energia positiva». L’altra ragione per cui lo apprezza, è la caratteristica che l’ha colpito la prima volta che l’ha visto. «Quando lei parla si capisce quello che dice. Non sembra siciliano», gli disse. Voleva essere un complimento, risultò una brianzolata.
A scuola ad Agrigento, Angelino è stato sempre un leader. Capoclasse alle elementari e alle medie, consigliere d’istituto al Liceo scientifico «Leonardo». Ha fatto l’università - facoltà di Legge - alla Cattolica di Milano da convittore, secondo un’antica tradizione della Dc meridionale da Ciriaco De Mita a Riccardo Misasi a Gerardo Bianco. Anche gli Alfano erano infatti dc. Angelo, il babbo, era vicesindaco della città dei Templi quando l’infante giocava a nascondino tra architravi e colonne. Pure il ragazzo debuttò nella Dc, diventando coordinatore provinciale in coincidenza col primo paio di calzoni lunghi. A vent’anni fu il più giovane consigliere comunale d’Italia prima che - nel 1992 - il partito di famiglia fosse spazzato da Tangentopoli. Il babbo ne fu piegato in due, Angelino non fece una piega. Giovane com’era, non aveva nostalgie ma voglia di futuro. Lo individua in Fi e brucia le tappe. A 26 anni - nel 1996 - è eletto all’Assemblea siciliana, più giovane parlamentare della storia isolana. All’epoca abitava ancora con i genitori. «Ciao, mamma. Vado a fare il deputato», titolò il Giornale di Sicilia sull’astro nascente. Quando arrivo a Palazzo dei Normanni - sede dell’Ars - e volle entrare in Aula, un commesso lo fermò. «Non si può», gli ingiunse. Lo aveva scambiato per il rampollo impertinente di qualche deputato intenzionato a entrare di straforo nell’emiciclo. Per dissipare l’equivoco, Angelino fu costretto a mostrare i documenti. Un pugno di mesi dopo era capogruppo degli Azzurri, mentre i rivali interni protestavano: «Ma è dare i Santi in mano ai picciriddi».
Nel 2001, già si parlava di lui come futuro vicepresidente nella Giunta Cuffaro. Alfano invece si candidò e fu eletto a Montecitorio. Rinunciava alla ben avviata carriera siciliana, per puntare deciso a Roma a costo di fare il peone. A chi gli faceva osservare il regresso, rispondeva: «Non ho particolari inclinazioni clientelari. Questo in Sicilia è una forza (si evitano contatti con la mafia, ndr) ma anche un limite perché la competizione elettorale si misura con le clientele». Risposta pronta e virtuosa a parte (la sua parlantina è da Grolla d’oro), Angelino vedeva giusto e lontano. Lontano perché i fatti gli hanno dato ragione: a Roma è diventato il cocco del Cav e l’autore segreto di alcuni suoi importanti discorsi; ministro a 37 anni (più giovane Guardasigilli della storia); ora è l’Erede. Giusto perché lasciando presto la Sicilia si è sottratto a quelle faide locali che finiscono, prima o poi, per avvilupparti in storie di coppole. E a macchiarlo, in effetti, hanno provato.
Nel 2002 gli arrivò per posta un pacchetto anonimo. Era una tipica sicilianata: un filmino su una festa di nozze cui Angelino aveva partecipato nel 1996. In qualche fotogramma, compare lui che bacia il padre della sposa, Croce Napoli, capomafia di Palma di Montechiaro. Analogo filmetto è inviato agli avversari politici di Alfano dell’agrigentino, che però si indignano e lo difendono. Angelino spiega: «Ero stato invitato dallo sposo. Non conoscevo né la sposa, né suo padre». Gli credono tutti, senza eccezione, essendo nota la sua idiosincrasia per la mafia. Lo ha dimostrato in questi anni da Guardasigilli, randellando niente male i mammasantissima insieme al Viminale di Bob Maroni. Una volta in tv disse: «Ai siciliani della mia età la mafia fa schifo». Tacque e ribadì: «La mafia fa schifo». Il motto piacque e a Palermo se ne fece uno slogan per magliette e striscioni. Per queste ragioni - tra cui la giovane età in un Paese di matusa -, Angelino è considerato dai conterranei la gloria dell’Isola. Il mensile I love Sicilia lo ha eletto in gennaio, su cento califfi locali, il Califfone più potente.
Dopo gli encomi, un rimprovero. Parlo per me. Come Guardasigilli ha zoppicato. Non perché, come si dice in giro, abbia fatto troppo in pro del Cav: Lodo Alfano per sottrarlo ai giudici, decreto blocca processi, ecc. Ma perché ha trascurato di fare quello che davvero avrebbe dovuto: la riforma della giustizia, con la separazione dalle carriere.

Data per imminente appena insediato, ha messo tre anni a partorirla e l’ha presentata solo un mese fa. Fuori tempo massimo. Imperdonabile.
Come Guardasigilli si ferma a un cinque. Veda di prendere dieci come segretario.

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