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Gli anni di piombo del calcio: agguato all’Inter

Gli anni di piombo del calcio: agguato all’Inter

Passamontagna calati sul volto, slogan scanditi con rabbia, tre poliziotti all’ospedale: la foto è da anni di piombo. L’iconografia riporta a quei sabati milanesi o romani da Katanga in azione e cattivi maestri in lotta continua col mondo. Poi, la guerriglia urbana finì quando sui muri di Valle Giulia qualcuno scrisse: «Macché Lenin/ macché Ingrao/ È Falcao/ il nostro Mao».
Il calcio come primavera, come superamento dell’angoscia da delirio politico. Ma sabato notte alla Malpensa, proprio il calcio ha mostrato la sua follia extraparlamentare: gli ultrà mascherati hanno assalito l’Inter che tornava da Ascoli, hanno ferito il calciatore Cristiano Zanetti, hanno minacciato gli altri. E hanno portato ancora una volta questo sport oltre la soglia della criminalità.
Un tempo le squadre che perdevano ignobilmente una partita e i calciatori che si trascinavano per il campo mostrando mollezze da miliardari privi di spina dorsale venivano fischiati, contestati, goliardicamente mirati con uova e pomodori. Era la regola, la inaugurarono gli azzurri di ritorno dal mondiale inglese nel 1966 (do you remember Corea and Pak Do Ik?). Era la regola, che nel tempo ha subìto variazioni da Mimì metallurgico («Andate a lavorare»), evoluzioni hard («Fuori i co...»). E poi pressioni con l’assedio degli spogliatoi, e poi messaggi mafiosi con le delegazioni di teppisti che chiedono di parlamentare con gli atleti. E poi auto bruciate, gomme tagliate.
La notte della Malpensa ci restituisce un calcio insopportabile e ci mostra una deriva inarrestabile di stampo sudamericano, anzi colombiano, del tifo. Laggiù, in un sabba senza pietà, nel 1994 venne ucciso un calciatore (si chiamava Andres Escobar) che aveva avuto il solo torto di commettere l’autogol decisivo per l’eliminazione della sua nazionale ai mondiali statunitensi.
Ci siamo quasi. Il clima è avvelenato, e parlare di frustrazione per mancanza di risultati significa giustificare atteggiamenti delinquenziali. A Torino, dove la Juventus vince con una certa regolarità scudetti e sfide importanti, anche ieri sera c’è stata contestazione ai giocatori eliminati dalla Champions league. Una tifoseria satolla ha voltato le spalle a una squadra in testa al campionato da quasi due anni e ha messo sul banco degli imputati un tecnico della qualità di Fabio Capello. No, la frustrazione non c’entra. E quella maglia nerazzurra a strisce verticali merita più rispetto.
Si potrebbe parlare di cultura sportiva, di fair play, di capacità di distinguere sacro da profano. Ma sono concetti che non appartengono al nostro pallone debole e feroce. Per uscire dal ricatto delle curve sarebbe bene che i giocatori cominciassero a denunciare chi li minaccia. E che le società, dietro flautate parole di facciata, la smettessero di adottare la politica dell’«appeasement» con le frange più estreme del tifo organizzato. Scendere a patti significa mostrare il ventre molle, apparecchiare la tavola alla violenza.

Se poi arriva col passamontagna, a sei giorni dal derby, c’è da aver paura.

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