Anni Settanta, il decennio che ha stremato l’Italia

Si continua a scavare in quel terreno di misteri che sono gli anni Settanta, un decennio che ha stremato l’Italia e l’ha resa un corpo coi nervi a fior di pelle, diffidente verso tutto, alle prese con polemiche e contropolemiche, ma soprattutto esterrefatto dinanzi alla possibilità che le spiegazioni siano così tante da perderci la testa. Ed è anche per questo che risulta confortante la lettura delle memorie di Achille Serra, attuale prefetto di Roma e dirigente della Mobile a Milano dall’autunno caldo in poi. Confortante non perché ci rivela finalmente la verità, ma per il tono pacato, per il coraggio di descrivere emozioni private in mezzo a quel guazzabuglio che era la società, la politica e l’eversione degli anni Settanta. Il libro s’intitola Poliziotto senza pistola (Bompiani), e il sottotitolo focalizza meglio il suo ricordare: «A Milano negli anni di piombo e della malavita organizzata». Ma c’è un altro motivo di conforto. In questi giorni escono altri due libri sullo stesso decennio, visto però da occhi che si sono collocati febbrilmente dall’altra parte e stentano o rifiutano non dico un pentimento, ma un’analisi che vada oltre le vecchie categorie, corrose anche dal punto di vista umano. Ci riferiamo a Un contadino nella metropoli di Prospero Gallinari (Bompiani) e al più letterario Il volo della farfalla di Adriana Faranda (Rizzoli). Gallinari, con un orgoglio che non si sa se più politico o familiare, mette nel titolo la sua terra d’origine, la cultura di un mondo rurale che, uscito dalla guerra deluso, non ha mai rinunciato a voler dissotterrare le armi della Resistenza per portare a termine quei compiti social-rivoluzionari che a molti pareva possibile realizzare. Gallinari, uno dei fondatori delle Brigate Rosse con Renato Curcio e Alberto Franceschini, torna con piglio contabile e ben lontano dalla tentazione dei sentimenti, agli anni del «mito tradito», il mito dello stato nuovo che uomini armati hanno trasformato in sangue, terrore, violenza fisica e morale. Adriana Faranda, invece, tenta di volare, come ambisce il suo libro. Volare in forma privata, anzi privatissima in quanto si dà il nome d’un fiore, Zoraima, avendo anche tutte le sue compagne di carcere un nome botanico: è un prendere le distanze dalla propria identità o comunque il volerne trovare una nuova, che non sia di questo mondo. Adriana Faranda fu carceriera di Aldo Moro e si oppose fino all’ultimo all’uccisione del presidente della Dc. Permane nei suoi scritti una posizione «contro», anche se poi nella cronaca della sua vita quel «contro» deve fare i conti con quell’estenuante dialogo che è l’esistenza vera.
Se Gallinari si fa algido notaio degli anni maledetti senza raggrumare un qualcosa che si avvicini alla consapevolezza di aver sbagliato e al dovere di chiedere scusa alla società (non solo alle vittime delle Br), Achille Serra vuole capire, anche dopo tanti anni, e non si vergogna quando denuda la propria impotenza nell’individuare il nocciolo di quel cancro che ha sconvolto l’Italia. Lavora allora sulle metastasi, con vari distinguo e facendo salvo il dovere di criticare quei governi che non capirono in tempo la gravità del fenomeno eversione. Non a caso Serra non ha mai abdicato all’ambizione di risolvere casi, anche scottanti anzi pericolosissimi, con la mediazione, il dialogo. «Senza pistola», appunto.
Serra doveva fare l’avvocato, ma scelse, a 26 anni, la polizia. Come vicecommissario si trovò nella Milano «che non dorme mai», dell’efficienza e della nebbia. Stipendio da miseria, solitudine, orari tremendi (di 24-28 ore, poi modificati per legge), dedizione. La sua è la storia «di un uomo d’ordine», uno dei tanti, quelli convinti di poter «raddrizzare il mondo». Avverte immediatamente il clima ostile: se si era sbirri si era anche «fascisti», se si andava in strada o nelle piazze non era per tutelare la pace ma per manganellare «quei poveri ragazzi» che, come scrisse Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia, «avevano le facce da figli di papà» e sputavano addosso ai veri proletari (quelli in divisa), che deridevano quella classe sociale per i valori della quale avevano abbracciato l’idea dell’insurrezione. Scrive Serra con un certo candore: «Mi chiedevo come potessero non rendersi conto che noi eravamo loro». Ma erano i giorni delle vetrine spaccate, dei tubolari conficcati nelle teste dei poliziotti (così morì, il 16 novembre 1969, l’agente Antonio Annarumma, a pochi metri dal Duomo), delle aule dell’università devastate, del sorriso di superiorità di Mario Capanna, «colto e scaltro». E anche del tutti a casa la sera a vedere Rischiatutto del “paciere” Mike Bongiorno.
Serra comincia a imparare alcune cose che gli serviranno. «Bisognava lasciare una via di uscita ai manifestanti, per non far degenerare la situazione e per dare loro il modo di ritirarsi senza finire in una trappola che ingenera solo altra violenza». Attenzione poi alla coda del corteo: da lì può venire il peggio: ed è stato sempre così. Se da un lato scrive che «è strano pensare come il movimento studentesco si sia dissolto nel nulla, così come era iniziato, nel giro di pochi anni», dall’altro si fa critico di fronte alla sottovalutazione delle frange estremistiche. Nello stesso tempo più che lanciare un’accusa insiste su un’amara constatazione: come era «esasperante quel governo che in quegli anni non ci difendeva abbastanza agli occhi della gente comune». Anche da qui l’estensione del cancro eversivo, ossia «dalla grande debolezza dello Stato, con polizia e carabinieri messi in ginocchio da quella gestione sempre incerta».
Ecco la morte del giudice Emilio Alessandrini, che Serra stimava moltissimo. I tre proiettili di Prima Linea, annota l’attuale prefetto di Roma, cancellarono la vita di un uomo che avrebbe potuto imprimere «un’altra piega a tutta la vicenda di Mani Pulite»: con lui «sarebbe stata affrontata con maggiore serenità ma anche maggiore efficacia». Dopo la strage di piazza Fontana, alcuni giornali decidono che il commissario Calabresi «deve morire». Sarebbe stato colpevole della morte dell’anarchico Pinelli, caduto da una finestra della Questura. C’è Camilla Cederna che in una cronaca giudiziaria (Calabresi aveva querelato Lotta Continua) lo descrive così: «...pullover a collo alto, sotto il completo rigato gangster». Ci sono ottocento intellettuali che definiscono Calabresi «commissario torturatore». C’è Adriano Sofri che stampa questo titolo sul giornale Lotta Continua: «Pinelli è stato ammazzato e Calabresi è il suo assassino, l’esecutore materiale». Nessuno, ricorda Serra, crede alla polizia. Nessuno crede allo stretto rapporto che c’era tra Calabresi e Pinelli, che si scambiavano libri e in qualche maniera si rispettavano. Il buon senso, riferito alla dinamica della morte dell’anarchico, è messo al bando. Sulla vera responsabilità di Sofri e compagni, Serra ammette: «Io non ho mai saputo rispondere». Fatto sta che fu proprio da Calabresi che Serra impara l’arte del dialogo. E pensando al commissario «ucciso ancor prima di essere ucciso da tre colpi di pistola», Serra, occupandosi di rapine e sequestri, non esita a parlare anche otto ore con i banditi, a entrare, armato solo della ragione, in una banca disarmato con cinquanta ostaggi e tre uomini col mitra. Lo stesso “sbirro” sfiderà Renato Vallanzasca, riconoscendo, alla fine, il suo strano codice d’onore.

Ma questo gli impedisce, ricordando il bandito che giocava a calcio con una testa mozzata, di invocare la sua liberazione. La legge è legge. Anche se il poliziotto ricorda la frase di Solone: «La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi».

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