Antico Egitto, «Ti amo» scritto con i geroglifici

E sistono civiltà o personaggi che dimostrano come mito e storia coincidano, come la storia possa rivelare e generare mito e il mito fare storia, e in questo senso l’Egitto è forse l’esempio più vistoso. A noi, all’Occidente, delle piramidi e delle sfingi, passò immediatamente l’enigma del numero e del simbolo, mentre il culto aureo del Faraone celebrava una metafisica piena, un conflitto armonico tra luce e buio eterni, e Anubi, il dio dal muso di cane o sciacallo, il messaggero che mette in comunicazione i due mondi, parve più rapinoso ed enigmatico dell’etrusco traghettatore Caronte, in quanto guida, l’egizio, a un regno in cui la vita si rigenerava nel sole. Iside e Osiride componevano in forma perfetta l’armonia astrale, e ai primissimi albori dell’impero di Roma il mito egizio cominciò a diffondersi nella cultura, nei riti, nella letteratura della grande capitale. È orientale, con forte costola egizia, il grande alfabeto mitico a cui attinge Ovidio per le sue travolgenti Metamorfosi, le favole componenti il poema prodigioso della nascita del mondo nelle sue forme. E, come sempre nelle realtà mitiche, è la storia stessa, anche nei suoi resoconti più precisi e dettagliati, a creare un mito o a esserne generata: dalle Vite di Plutarco, ma non solo, il mondo apprende la favolosa e tragica vicenda di Antonio, il grande combattente romano in conflitto con il futuro imperatore Augusto, e Cleopatra, la leggendaria regina egiziana. Sensuale signora di un regno decaduto e asservito, Cleopatra diviene immediatamente una figura leggendaria per la bellezza luminosa e l’eros infibrati del sole faraonico, e per la seduzione magica e irresistibile ispirata dalla luna. La vicenda storica dell’amore di Antonio per Cleopatra, che lo allontana come in preda a un estatico oblio dall’agone romano e dalle sue mansioni di politico e guerriero, ispira a Shakespeare una delle più straordinarie tragedie d’amore di ogni tempo, in cui Cleopatra rappresenta la polarità irresistibile di eros, nel quale l’uomo di stato si consuma e annichilisce, fino alla morte. La bellissima e infine ferale Cleopatra, splende nei versi di Shakespeare come diadema di tutte le bellezze mitiche: «Vinceva Venere come ci appare in un dipinto, dove la fantasia supera la natura». Ma anche come emblema di una superiore armonia cosmica, se nel momento di morire, suicida per il morso dell’aspide, la regina sente «la smania dell’eterno... Io sono fuoco e aria, lascio gli altri miei elementi a una forma di vita inferiore». La ricomposizione immediata di vicenda umana, storica, e vicenda cosmica, è l’ennesima prova del genio di Shakespeare che ci rappresenta immediatamente e naturalmente la complessità di ogni cosa, e leggendo una interessantissima raccolta, Canti d’amore dell’antico Egitto, da poco in libreria (Salerno, pagg. 116, euro 9) a cura di Emanuele M. Ciampini, riscontriamo in queste bellissime poesie d’amore di autori anonimi, scritte sotto il regno di Ramses II (1290-1224 a. C.), la permanenza della tensione cosmologica egizia, quella dei testi sacri, sacerdotali e dei libri dei morti, all’interno di una sensibilità mutata, raffinata e alleggerita, come accade alle civiltà nelle fasi avanzate del loro splendore. Il curatore ci introduce con efficacia nella situazione storica e culturale in cui nascono questi versi, e nella intensa e accesa tematica amorosa.

In queste composizioni, spesso in forma di dialogo, dove compaiono ricorrenti le stanze e il giardino degli amanti, la lirica, sensuale e desiderante, rivela quella implicita tensione cosmologica che si rinviene in alcuni esempi di grande poesia erotica del mondo antico, dove le pulsioni degli amanti terreni, pur palpitanti, rimandano a conflitti e desideri di unione primordiali e universi. L’esito in lingua italiana è molto bello, un piccolo scrigno di poesie d’amore.

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