Roma - l cappotto... Ora che se ne è andato, chissà perché mi torna in mente il suo viso mentre cercava il cappotto. Nel grande atrio al primo piano di Montecitorio, davanti al portale ormai svuotato di chissà più quale Bicamerale per le «grandi riforme», quella presieduta dalla Iotti o forse da De Mita. Era solo, e rigirava tra le mani quel loden blu a fodera rossa con gesti lenti e silenziosi, gli occhiali abbassati sul naso che ingigantivano uno sguardo assorto e incredulo. Come se il «suo» cappotto, altro che Gogol, gli avesse fatto lo scherzo di tramutarsi. Qualcosa non andava, non era più lui. «Onorevole, probabilmente gliel’hanno scambiato», gli dissi, in quegli anni i loden a palazzo si sprecavano. «Ah...», fece lui senza sorridere ma sollevato.
Quello stesso sguardo pacato e incredulo, l’ho rivisto su Antonio Gava poi, nelle foto scattategli le due volte che venne arrestato. Allorché non riconosceva il suo cappotto, pur se la prima Repubblica stava già morendo, certo non immaginava che il mondo gli sarebbe caduto addosso presto. Ma Gava, potentissimo signore della grande Dc, ha affrontato gli anni della caduta con la stessa calma e le stesse scarse parole con le quali aveva accompagnato il lungo esercizio del potere. Di salute erano anni che gliene mancava, anche quando era il signore dei dorotei e Ciriaco De Mita doveva cercarne l’alleanza: soffriva seriamente di diabete. Per questo si muoveva lentamente, con gioia della satira che ne ritraeva i gesti solenni del boss napoletano, il vero ed unico ’on Anto’. Lui si prestava: sfoggiava doppiopetti gessati pur essendo costretto a magre sogliole bollite, addentava il sigaro pur non potendone tirare un filo. Sotto i ferri c’è finito sei o sette volte, «tumori e rogne varie», spiegava con disincanto. Tre bypass al cuore, il primo ictus mentre reggeva il Viminale, a Ferragosto ’90, «una carezza della morte», raccontava. «In coma pregavo Dio perché mi lasciasse due giorni per prepararmi a morire. Invece me ne ha concessi molti di più. Da allora mi sento tranquillo. E sempre pronto».
L’ala della morte lo ha toccato ieri a 78 anni. Dopo averlo sfiorato parecchie volte, se ancora quattro anni fa, per strappargli un’intervista, gli proposi la lettura del «coccodrillo» che avevo già aggiornato un paio di volte, dal maggio 2000 allorché l’ennesimo infarto sembrava dovesse ricongiungerlo a suo padre Silvio, ancor più potente di lui, che se ne era andato a dicembre, a 98 anni. Ascoltò divertito, ma con le mani sotto la scrivania. «Io parlo, ma lei non scrive», mi disse senza nemmeno una correzione al coccodrillo. Come, non scrivo!? «Per scrivere ci rivediamo dopo la sentenza d’appello, quando mi avranno restituito l’onore», promise. Confidò che pregava Dio di chiamarlo a sé dopo aver ottenuto giustizia dagli uomini. Così fu, alla fine d’aprile 2005. A conclusione di una selva di processi sterminati, avendo conosciuto il carcere per due volte. Con ignominia, se andarono ad arrestarlo nella bella casa all’Eur alle 4 del mattino: «Forse temevano che uscissi per una passeggiata», diceva respingendo ogni accusa. Pure l’associazione a delinquere di stampo mafioso, gli era arrivata addosso; e lui, con flemma napoletana: «Rispetto le toghe e attendo con serenità il loro verdetto». Quante gliene hanno dette? Santo patrono della camorra, don Antonio Fetenzìa, signore delle tessere, re del sottogoverno e principe della raccomandazione, acchiappapoltrone, il peggio della democristianeria. Però, una volta perso il potere e ritiratosi in casa, senza mai più tornare nemmeno a Napoli, s’è sempre rifiutato di tornare in politica o dare una mano ai vecchi amici. «Sono stato per 40 anni nella Dc, ne ho vissuto la storia», si negava, «non vedo perché continuare a far politica. Mica è una professione, la politica».
E quando si vide assolto dopo 13 anni di calvario, risarcito dallo Stato con 140mila euro, di Luciano Violante si limitò a dire che trovava «calzante la definizione datagli da Cossiga: piccolo Vyshinskij». Non senza dimenticare «lo stupore» ormai sedimentato, alla scoperta che i rinvii a giudizio che lo riguardavano «erano costruiti con frasi e paragrafi ricopiati di sana pianta dalla relazione conclusiva della Commissione Antimafia», presieduta appunto da Violante. Sì, quando le toghe presero d’assalto il Palazzo d’Inverno. Andreotti, Forlani, Craxi... Ora Gava si è ritirato per sempre, ma col crisma dell’innocenza giudiziaria.
Chi sa dire adesso, se Gava ministro dell’Interno - nei governi De Mita e Andreotti, dopo aver retto le Finanze con l’esecutivo Goria - fosse un’offesa o il riconoscimento ad una meritata carriera politica? Sentenziava De Mita che «se Gava fosse nato a Milano, sarebbe già da un pezzo presidente del Consiglio». Sì, era il figlio di Silvio Gava, profugo a Castellammare di Stabia da Vittorio Veneto dopo la disfatta di Caporetto, fondatore del partito popolare di don Sturzo a Castellammare. Nella Dc Antonio aveva esordito alla grande, il più votato in Italia alle prime regionali, nel ’70, con 107 mila voti. Poi dal ’72 alla Camera, battendo il record delle 225 mila preferenze nell’87. Quando non era ministro, faceva il capogruppo Dc.
Amatissimo dai suoi, se agli atti c’è una lettera con un caloroso «grazie!!» di Scalfaro per il contributo elettorale di 20 milioni di lire. Fatale gli è stato il ’92, era passato al Senato e s’andava scatenando la tempesta sulla politica. Il ’92, quando anche il cappotto s’era fatto irriconoscibile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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