Adalberto Signore
nostro inviato a Washington
«Mai avrei pensato di parlare dei valori della libertà e della democrazia davanti al popolo degli Stati Uniti e mai avrei pensato di farlo a nome del popolo italiano». La standing ovation che saluta la fine del discorso di Silvio Berlusconi davanti al Congresso in seduta plenaria dura quasi tre minuti. E si interrompe solo quando il premier, dopo aver prima ricambiato con un applauso di ringraziamento la calorosa accoglienza della Camera dei rappresentanti e poi cincischiato a lungo con la cartella rossa che custodisce il discorso appena chiuso, rompe gli indugi e scende dal podio. Per lui ci sono solo strette di mano e pacche sulle spalle, con un senatore che ha parole di elogio per l'immagine con cui Berlusconi ha appena concluso l'intervento (quella di suo padre che da piccolo lo accompagnò sulle tombe dei caduti americani della Seconda guerra mondiale) e un altro che arriva finanche a chiedergli un autografo in calce al testo del discorso. «Un giorno memorabile, è andato tutto al di là delle migliori aspettative», dirà più tardi ai suoi.
E in effetti, il bilancio dell'atteso intervento del presidente del Consiglio non può non essere positivo. Perché il Congresso gli tributa tre standing ovation e per ben 15 volte lo interrompe con applausi scroscianti. E perché la platea è sì a maggioranza repubblicana e con qualche assenza tra le file dei democratici, ma nella sostanza bipartisan. Al punto che anche Hillary Clinton fa parte del ristretto gruppo di senatori (tra loro anche Bill Frist, il leader della maggioranza in Senato) che, come vuole il protocollo nel caso di ospiti illustri, accompagnano Berlusconi nel corridoio che porta all'ingresso dell'emiciclo. Sarà proprio la ex first lady ad augurargli prima un caloroso «good luck» e poi ad applaudirlo a più riprese, fino al punto - in ben due passaggi - di accompagnare l'intervento del premier con eloquenti gesti di assenso del capo.
È il vicepresidente Dick Cheney ad aprire il sipario annunciando l'ingresso dei senatori, seguito dopo solo qualche secondo dall'improvviso accendersi delle grandi luci che sovrastano l'Aula. Quasi fosse un palcoscenico, la sala del Congresso si anima e accoglie Berlusconi e il ristretto gruppo di senatori che l'accompagna. Ci vogliono quasi due minuti prima che gli applausi lascino spazio all'intervento del premier. Che dura una quarantina di minuti, si apre in inglese, va avanti in italiano e torna all'inglese per una chiusa che conquista letteralmente tutti, repubblicani e democratici. Tra loro pure una piccola delegazione italiana, guidata dal presidente della commissione Esteri della Camera Gustavo Selva, e tre carabinieri in servizio all'ambasciata italiana. Uno di loro, sopravvissuto alla strage di Nassirya, quando il premier affronta il passaggio su «bringing peace e building democracy» applaude convinto. Dopo aver parlato a lungo di «gratitudine», «fedeltà» e «amicizia», il presidente del Consiglio chiude facendo appello agli affetti e coglie nel segno. Al punto che pure Hillary Clinton non avrà che parole di grande elogio: «Un discorso eccellente che davvero esprime il profondo legame che c'è tra Italia e Stati Uniti, la fine soprattutto mi ha toccato». E anche Berlusconi, durante quei quasi tre minuti di applausi, pare commuoversi. E si guarda intorno con un'espressione che è un misto di soddisfazione e incredulità. Poi, girata la testa da destra a sinistra e da sinistra a destra, sorride un po' compiaciuto e concede anche lui un applauso composto ma sentito al Congresso degli Stati Uniti.
Alla soddisfazione per la giornata, però, si unisce l'amarezza per la stravagante precisazione arrivata ieri sera dopo l'incontro con George W. Bush. «La Casa Bianca non interviene nelle questioni interne dell'Italia» era la scontata dichiarazione di un anonimo dirigente del governo. Lanciata da un'agenzia di stampa, la dichiarazione è rimbalzata in Italia ed è finita poi sulle prime pagine di tutti i giornali. Una precisazione - sono convinti a Palazzo Chigi - che non arriva affatto dall'entourage di Bush (che nell'incontro è stato prodigo di complimenti, andando ben oltre i protocolli della diplomazia) ma sarebbe stata sollecitata direttamente da Roma. Con i suoi, Berlusconi l'avrebbe sintetizzata così: «Hanno provato a boicottarmi». Una riflessione che troverebbe conferma nella secca presa di posizione di John Boehner, uno dei più influenti politici di Washington e leader della maggioranza repubblicana alla Camera. Quasi a risolvere la querelle di martedì, alla domanda se una vittoria di Romano Prodi cambierebbe gli equilibri tra Italia e Stati Uniti, Boehner non lascia margini a dubbi: «Preferisco Berlusconi». Sarà forse anche per questo che il premier non sembra perdere affatto il suo buon umore.
Adalberto Signore
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