Ma con le archistar si sprofonda all’Inferno

Ma con le archistar si sprofonda all’Inferno

di Vittorio Sgarbi

Questo confronto (tra archistar e architettura religiosa, ndr) ha portato spesso a soluzioni totalmente estranee alla tradizione, cosa forse anche lecita, ma talmente mortificanti sul piano espressivo, da diventare poco più che hangar o magazzini. Una delle più brutte testimonianze in questo senso è la chiesa concepita da Massimiliano Fuksas per Foligno: un edificio di straordinaria bruttezza che sembra voler svilire i temi dell’architettura che vanno dalla verticistica invenzione di Calatrava, appena accennata, ai motivi della cupola. Esaurita l’idea del cielo, sono cancellate con una superficie uniforme e piatta sia la cupola, sia la volta. Così nella concezione di Fuksas, che è quella appunto di un magazzino che diventa chiesa \.
Sembra corretto affermare che le tipologie architettoniche realizzate nel Novecento siano in gran parte fallimentari, in quanto frutto di un distacco fra l’idea religiosa, o i temi della fede in Dio, come stimolo potente alla creazione e la creazione stessa che è invece indirizzata verso altri binari, verso la mortificazione dell’uomo o la convinzione di una crisi dell’uomo che implica, addirittura, l’eliminazione della sua presenza nella pittura, come si può vedere da Morandi a Burri a Fontana. In queste esperienze artistiche è evidente come sia quasi inaffrontabile il soggetto dell’uomo come persona e come centro per la visione religiosa. Figuriamoci allora nell’architettura, dove l’idea del cielo, della volta celeste, presentata dalla cupola o dalla volta della chiesa sembra totalmente impraticabile e quindi eliminata dalla visione degli architetti.
Imbarazzo nell’iconografia di scultori e pittori rispetto ai soggetti sacri, e imbarazzo degli architetti rispetto ai temi dell’architettura sacra: così da molti anni siamo di fronte a esperienze fallimentari, o impossibilità, e a una diminuzione, se non proprio all’azzeramento, del potenziale creativo ispirato dalla Chiesa. Questo mi fa pensare a una relazione immediata tra la perdita della centralità dell’uomo in generale, la perdita della centralità della persona con riferimento alla visione religiosa e la perdita dello spazio architettonico inteso come volta celeste o come rappresentazione di uno spazio di elevazione. Di questo fallimento e negazione, ne sono prova non solo la modesta architettura di Fuksas a Foligno, ma anche altre testimonianze in cui l’architettura contemporanea naufraga nel tentativo di mantenere la sua forza. È noto tra gli altri un esempio, di medio interesse rispetto alla qualità architettonica, che è la chiesa progettata da Gio Ponti a Taranto con le due fontane, purtroppo prosciugate e non ancora riabilitate, in cui si specchia una trina di facciata molto elegante, di gusto quasi neo-liberty, vagamente allusiva del verticalismo gotico. Il risultato è una miniatura ingrandita, come se, pur nell’intelligenza di Gio Ponti, non riuscisse a tenere quelle dimensioni. Pertanto, si può dire che della produzione novecentesca, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, non molto può essere salvato nella corrispondenza tra esigenze della religione e architettura. Tra le poche interessanti eccezioni vanno ricordate le testimonianze ticinesi di Mario Botta, il quale ha dato prova di avere dentro di sé una forza religiosa o un’intuizione, una sensazione di quello slancio trascendente, divenuta poi forma architettonica. \ Nella Messa post-conciliare al posto di Bach, tanto amato da Ratzinger, si suona la chitarra, gli antichi altari versus absidem vengono sostituiti da quelli rivolti verso il popolo per favorire una migliore comunicazione, e si usa l’italiano per consentire al celebrante di parlare ai fedeli, in una finzione dialogica. Cosi, la liturgia della Parola, nella traduzione dal latino, perde l’aura di mistero e diviene comprensibile anche per l’ultimo fedele seduto in chiesa. Rimane un istupidimento delle azioni, come la stretta di mano finale, la traduzione di Ite Missa est, ovvero «la Messa e finita», ma soprattutto un effetto «strutturale» che si riflette nell’architettura.

Per poter dialogare, il sacerdote ha bisogno di una mensa, quindi di un altare che sia rivolto al fedele, al centro del presbiterio, presupposto che ha disabilitato tutti gli altari rialzati e addossati al tabernacolo che imponevano la celebrazione della Messa di spalle. Gli altari post-conciliari pongono al centro l’assemblea e non più il mistero di Cristo, riducendo l’aspetto sacrificale dell’Eucaristia a un puro banchetto o una cena.

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